Una catena di blackout colpirebbero New York, Los Angeles, Washington e più di 100 altre città americane. Avremmo incidenti tra metropolitane. I gasdotti esploderebbero. Gli stabilimenti chimici sprigionerebbero nuvole di cloro tossico. Le banche perderebbero tutti i loro dati. I satelliti andrebbero fuori orbita. Tutti i networks del Pentagono subirebbero un brusco arresto, paralizzando il più potente apparato militare al mondo. Sembrerebbe l’inizio del film Die Hard, in cui un gruppo di cyber terroristi tentano di inscenare quello che chiamano fire sale: il sistematico blocco delle comunicazioni nazionali e delle infrastrutture dei servizi.
Secondo Richard Clarke, l’ex consigliere alla sicurezza informatica della Casa Bianca, questo è uno scenario realistico che, come spiega nel suo libro Cyber War: The Next Threat to National Security and What to Do About It, potrebbe mettere in ginocchio l’America in 15 minuti. “Gli Stati Uniti stanno preparando una offensiva nella guerra informatica ma, al tempo stesso, la politica del paese rende impossibile difendersi efficacemente da questi attacchi“. Gli States avranno anche inventato la Rete, ma ad oggi almeno 30 nazioni sono in grado di scatenare una guerra informatica capace di mettere in seria crisi i sistemi economici, militari e finanziari degli altri paesi.
Ironia della sorte, proprio gli Usa sono lo stato maggiormente esposto al rischio di cyber attacchi, rispetto a Russia, Cina e persino Corea del Nord, perché queste ultime hanno sempre fatto molto meno affidamento su Internet, sviluppando, al contempo, una miglior deterrente informatico. Per evitare che tutto ciò venga interpretato come la fantasia di un allarmista, c’è da dire che “lo zar dell’antiterrorismo” (così viene soprannominato Clarke) già nel 2004 ci aveva visto giusto sulla mancanza di preparazione americana nei confronti di Al-Qaeda nel libro Against All Enemies. E a finire nel mirino è proprio l’espansione di Internet, perché ora i computer dominano quasi ogni aspetto del settore produttivo americano e questo ha portato ad un pericoloso livello di dipendenza dalle macchine.
Nel nuovo libro Clarke usa le sue conoscenze specifiche in campo di politiche per la sicurezza per creare un credibile quanto apocalittico quadro della minaccia con la quale gli Stati Uniti potrebbero trovarsi faccia a faccia. Le parole di Clarke fanno seguito all’avvertimento di Michael McConnell, ex direttore della National Intelligence, che testimoniando davanti al Congresso ha detto: “Se oggi fossimo in presenza di una Cyber war, gli Stati Uniti avrebbero perso. Questo non perché non abbiamo persone di talento o una tecnologia all’avanguardia, ma perché semplicemente siamo i più dipendenti dalla Rete e dunque i più vulnerabili. Inoltre, a livello nazionale, non abbiamo compiuto i passi necessari per la comprensione e la protezione cyberspazio”.
Di opposto parere il Coordinatore della Casa Bianca sulla Cybersecurity, Howard Schmidt, che in una recente intervista ha respinto il concetto di una guerra cibernetica, sostenendo che gli Stati Uniti possono difendersi: “Come possiamo fronteggiare una massiccia cyber intrusione o un attacco di quelle dimensioni? Siamo molto più preparati ora che in passato”. Infine, è da notare la recente presa di posizione di James Lewis, uno dei maggiori esperti governativi di sicurezza, che vede la Cyber war come un evento improbabile in quanto le capacità degli Stati Uniti nell’individuazione degli attaccanti e nella adeguata ritorsione giocano un ruolo equivalente a quello svolto dal deterrente nucleare all’epoca dell’equilibrio del terrore di passata memoria.
Resta comunque memorabile la considerazione fatta da Bruce Schneier nel 2007: “La Cyber war non è certamente un mito. Ma voi non l’avete ancora vista, nonostante gli attacchi contro l’Estonia. La Cyber war è guerra nel cyberspazio. E la guerra implica la morte e la distruzione di massa. Quando la vedrete, non avrete dubbi”. Come affrontare quella che per gli Usa potrebbe rivelarsi una sorta di nuova Pearl Harbour? Clarke ha riferito che un gruppo di 30 esperti di ciberspazio riuniti nel 2009 giunse alla conclusione che le infrastrutture critiche dovessero essere separate dall’open-to-anyone caratteristico di Internet. Gli esperti si dissero favorevoli a un maggiore interesse nella ricerca e sviluppo degli studi cibernetici e conferire maggiore “resistenza” ai sistemi perché rispondessero nel modo migliore a un evenutale attacco.
fonte: loccidentale.it
autore: Alma Pantaleo