Lucetta Scaraffia: Io, l’eretica, vi spiego la mia conversione

lucetta_scaraffia.jpgAll’età di 2 anni Lucia Scaraffia decise di cambiarsi il nome in Lucetta e nessuno in famiglia trovò la forza di obiettarle alcunché. A 12 ebbe una crisi mistica: “Temendo di voler diventare suora, facevo le novene, dieci avemarie al giorno, per ottenere la grazia di non finire in convento”. Pregava anche Gesù per la conversione della zia Angela Scaraffia, una coriacea comunista che era stata l’amante di Gaetano Salvemini e che sarebbe morta elettrice di Rifondazione, segno che non tutte le suppliche salgono al cielo.
Chi la legge sulla prima pagina dell’Osservatore romano o sul Corriere della sera o sul Riformista, chi segue le sue lezioni di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, chi la vede dibattere in tv di aborto e di eutanasia, chi ne apprezza il raziocinante ardore di cattolica dichiarata all’interno del Comitato nazionale per la bioetica, chi affronta le 322 pagine del suo nuovo libro Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia (Laterza), scritto a quattro mani con la laica Margherita Pelaja, pensa che Lucetta Scaraffia sia così fin dalla nascita: uno scricciolo ascetico. Poiché invece è destino degli spiriti liberi diventare eretici quando regna l’ortodossia e ritornare ortodossi quando dilaga l’eresia, la mite studiosa dal carattere ferrigno è stata anche militante marxista, sessantottina, protofemminista, divorziata.
Oggi si accinge a rimettere ordine sacramentale nell’ultimo segmento della sua vita da eretica: vuole sposare in chiesa Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere, col quale vive da 21 anni e che civilmente è già suo marito. “Lui non ne sentirebbe il bisogno, ma spero che capisca quanto sia importante per me”. Il Tribunale del vicariato di Roma ha dichiarato nullo il precedente matrimonio con un compagno di università della Statale di Milano. “Mi sposai in chiesa solo per accontentare mia madre. Era il 1971. A celebrare le nozze fu il cappellano di San Vittore”. Nel 1982 ebbe una figlia con lo storico Gabriele Ranzato, anch’egli reduce da un matrimonio fallito. L’apparente disinvoltura nei rapporti con l’altro sesso sembrerebbe più consona alla Casa delle donne di via del Governo Vecchio che all’austero appartamento dei Parioli dove Scaraffia e Galli della Loggia abitano, sullo stesso pianerottolo di Fulco Pratesi. Il presidente onorario del Wwf è confinante di salotto, precisamente dal lato dove si trova il caminetto stipato di libri scritti da Lucetta. Dev’essere anche per questo che Il Foglio l’ha paragonata a Giovanna d’Arco. C’è in lei una sorta di predestinazione al rogo.
 

Proviene da una famiglia cattolica?
Solo per parte di madre. Mio padre era massone. Costruiva raffinerie nel Mediterraneo. La Sardegna, dove trasferì la famiglia da Torino, è stata il mio primo altrove. Mamma mi portava solo alla Rinascente di Cagliari, secondo lei l’unico luogo frequentabile. Non mi permise mai d’indossare i jeans. A Milano feci il ’68 in tailleur.
 

Estremista come suo fratello Giuseppe, oggi compagno di Silvia Ronchey.
Sì, ma io non ho mai preso né dato manganellate. Durante gli scontri in cui fu ucciso l’agente Antonio Annarumma finii accerchiata dai celerini. Mi salvò il mio tailleurino azzurro. “Signorina, che ci fa lei qui?” mi misero al sicuro i poliziotti prima della carica. E al liceo Parini non ho mai scritto sulla Zanzara. Quando lessi sul giornalino d’istituto le interviste raccolte dalla mia compagna di classe Claudia Beltramo Ceppi, ci restai malissimo. Ma come? Tutte quelle studentesse, in grembiule nero come me, facevano sesso, o almeno dicevano di farlo, e io niente? Ero talmente avvilita che l’insegnante di religione, un prete all’antica, dovette consolarmi: “Non se la prenda, per fortuna non siete tutte uguali”. Mia madre m’impediva persino d’andare al cinema, considerato un luogo di perdizione.
 

Per via dei film vietati?
Per quello che sarebbe potuto accadere nel buio della sala. Vedevo i film di nascosto, col terrore che qualcuno mi riconoscesse. Quando a 19 anni smisi d’andare a messa, si disperò: “Adesso non hai più una morale!”. Frequentare la parrocchia per mia madre significava non avere rapporti sessuali.
 

E diventò femminista.
Fra le prime in Italia, credo. Una reazione alle assemblee del Movimento studentesco, dove solo i maschi potevano concionare. Però alle riunioni di autocoscienza facevo scena muta, ero sconvolta dai racconti intimi delle mie compagne. Poi una di loro mi spedì a Londra con un suo fidanzato, erede di un industriale lombardo, per incontrarvi le femministe inglesi. Quelle militanti aggressive e la sporcizia e il disordine che regnavano nella loro comune non mi piacquero. Quando il mio accompagnatore fu chiuso a chiave nello sgabuzzino delle scope perché non ascoltasse i nostri discorsi, cominciai ad avere qualche dubbio.
 

E si mise a studiare le sante e le suore.
Erano diventate di moda fra gli storici, data la grande abbondanza di fonti. Ma guai a occuparsi della loro spiritualità. Influenzata dal femminismo, mi avvicinai a Rita da Cascia e a Teresa d’Avila solo per fare storia sociale, null’altro. I testi delle sante cominciarono a parlarmi al di là delle mie intenzioni. Capivo che c’era qualcosa di più, ero sedotta dall’oggetto dei miei studi.
 

Fino a che vent’anni fa è “tornata a sentirsi appassionatamente cattolica”, parole sue. In che modo?
Ho avuto una conversione vera. Era domenica, tornavo dall’edicola. Vidi molta gente radunata davanti alla Basilica di Santa Maria in Trastevere, allora abitavo lì. C’era pure Giulio Andreotti. Un passante mi spiegò che si festeggiava il ritorno di un’icona restaurata, una madonna del VI secolo. Mi ritrovai non so come nel primo banco della chiesa. Entrò l’icona, preceduta da una lunga processione. Il coro intonò l’Akathistos bizantino, il più antico inno liturgico dedicato alla Madre di Dio. E io mi sentii male. Mi scusi… (Si commuove). Fui invasa da un fortissimo senso di luce, di calore, di presenza. Ho capito che lì c’era, ecco. C’era e mi diceva qualcosa. Mi si rivelava. Le parole sono rozze, non possono spiegare la gratuità della grazia divina. Da allora mi pare d’essere completamente cambiata.

Cambiata come?
Ho incontrato le missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Mi sono letta tutte le lettere della loro fondatrice, Santa Francesca Cabrini, proclamata da Pio XII patrona degli emigranti. Quando ho detto a Ernesto che avevo accettato di scrivere la biografia di una suora sconosciuta, Chiara Grasselli, ha creduto che fossi impazzita. Invece ne è nato Il Concilio in convento, uno dei libri cui tengo di più. Per realizzarlo ho intervistato molte cabriniane, compresa la direttrice della Columbus, la famosa clinica milanese, una donna che parla da pari a pari con i luminari della medicina. Era felice perché la Chiesa aveva consentito alle suore di tenere un po’ di soldi per uso personale: “Prima non potevo fare l’elemosina ai poveri per strada”.

Ora arriva “Due in una carne”, con cui vuole dimostrare come la sessuofobia della Chiesa sia solo uno stereotipo.
È così. Fino alla rivoluzione industriale, Chiesa e società promuovevano lo stesso obiettivo: fare figli. Una necessità imposta dal bisogno di braccia e dall’alta mortalità infantile. È dal Novecento che le loro strade si sono divaricate. La società imputa ai preti di prescrivere obblighi che non sono naturali. Ma non è che il mondo d’oggi sia permissivo e la Chiesa repressiva: hanno solo due visioni diverse del corpo.

Tempio dello Spirito Santo, secondo il catechismo.
Centrale è il dogma cristiano dell’Incarnazione. E siccome la cosa più importante che facciamo col corpo è l’atto sessuale, esso non può rappresentare soltanto un momento di piacere ludico. È proprio l’importanza che la Chiesa assegna al corpo a fare la differenza. Non a caso fino al Cinquecento il Risorto veniva rappresentato addirittura in erezione, a sottolinearne l’effettiva natura umana. Perfino il Cristo morto di Andrea Mantegna custodito nella Pinacoteca di Brera trasuda virilità. Se il Braghettone venne chiamato a coprire i nudi della Cappella Sistina, la colpa fu della Riforma protestante.
Ma Tertulliano già 13 secoli prima scriveva: “Nell’ultima dirompente vampa di piacere non abbiamo forse la sensazione che una parte dell’anima esca fuori di noi?”. Si preoccupava che non fuoriuscisse l’anima intera.
La dottrina cattolica ha sempre contrastato la concupiscenza perché porta l’uomo alla perdita di controllo e scardina i rapporti sociali. Del resto tutte le culture disciplinano l’eros. Ma la Chiesa è rigida nelle regole e duttile nella loro applicazione.
 

Cioè predica bene e razzola male?
Dimostra saggezza umana. Nell’Ottocento furono i medici positivisti nemici del clero a sostenere che la masturbazione portava alla cecità e che gli omosessuali erano malati da curare. La Chiesa avrebbe potuto cavalcare le loro balzane teorie. Non l’ha mai fatto. Per la dottrina cattolica gli omosessuali in quanto tali non esistono. Ci sono soltanto persone che compiono atti contrari alla natura.
 

Per la verità il cardinale Giacomo Biffi ha appena raccomandato la “doverosa riprovazione di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, ha citato la condanna di San Paolo e ha scritto che “non ci è consentita la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.
La società occidentale è stata la prima al mondo ad avere legittimato l’omosessualità. Ne sono scaturiti problemi di comprensione col resto dell’umanità e in particolare con i musulmani. Sarà impopolare dirlo, ma spesso il fondamentalismo islamico è una reazione all’ultraliberalismo culturale dell’Occidente.

Anche il vescovo Luciano Pacomio, commissario della Cei per la dottrina della fede, ha citato San Paolo, ma per dire che, così come non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero, “non c’è più omosessuale o eterosessuale”.
Non sono d’accordo. “Maschio e femmina Dio li creò”, Genesi. Gli omosessuali sono liberi di comportarsi diversamente dagli altri, ma nel contempo non possono pretendere gli stessi diritti degli altri.

Tipo?
Sposarsi, fare figli o adottarli. La Chiesa si mette sempre dalla parte dei più deboli, in questo caso i bambini, che hanno tutto il diritto d’avere un padre e una madre e di crescere con loro.

Per lei esistono peccati sessuali?
Sì. Penso all’adulterio, la coltivazione di un desiderio sbagliato. Lo vedo come una sottrazione di risorse. È difficile portare avanti una famiglia se non c’investi tutto te stesso.

Che cosa direbbe il professor Joseph Ratzinger del libro “Due in una carne”?
Gliel’ho mandato. M’illudo che possa interessarlo.

Con chi litiga di più nel Comitato nazionale per la bioetica?
Col ginecologo Carlo Flamigni, il padre della fecondazione assistita. È molto difficile discutere con lui. Certamente Flamigni parlerebbe di me nello stesso modo.

Ma serve un simile organismo?
Non saprei. Certo il governo non ci consulta di frequente. Serve però come guida ai comitati etici degli ospedali. Vorremmo anche arrivare nelle scuole. Lo sa che in giro per l’Italia i corsi di bioetica agli studenti li tiene la Cgil?

L’eutanasia sarà legalizzata?
Temo di sì. L’età media aumenta, tenere in vita i malati costa. Ci sarà la corsa a far fuori le persone più indifese. Il tanto celebrato welfare svedese si basava anche su questo, sull’eugenetica.

Come giudica il testamento biologico?
Non lo chiamerei testamento perché la vita non è una proprietà di cui l’individuo possa disporre a suo piacimento.

Il suo articolo sull’”Osservatore”, in cui a 40 anni dal rapporto di Harvard denunciava i limiti dei criteri di accertamento della morte cerebrale, ha suscitato un bel vespaio.
Non capisco perché. M’ero limitata a recensire due libri sul fine vita. L’Unità è arrivata a sostenere che per colpa mia sono morti alcuni pazienti in attesa di trapianto. Persino The Economist e Le Monde hanno riconosciuto che ho posto un problema reale, che la discussione su questo tema spinoso è aperta in tutto il mondo. Solo in Italia sembra proibito parlarne.

La Santa sede ha preso le distanze.
Ma nessuno ha potuto scrivere che l’articolo sia dispiaciuto a Benedetto XVI.

Che intende dire?
Fu l’allora cardinale Ratzinger a cancellare di suo pugno dal catechismo della Chiesa cattolica l’aggettivo “cerebrale”, sostituendolo con “reale”, là dove si legge che “per il nobile atto della donazione degli organi deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore”. Un’affermazione appena ribadita dal Papa in un discorso.

Qualcuno ha preso le sue difese?
Sì, per esempio Vittorio Feltri. E mi ha cercato il professor Pier Paolo Visentin, che per vent’anni ha affiancato il medico personale di Papa Wojtyla. Era primario di rianimazione al Santo Spirito di Roma. Ha chiuso con gli espianti, dicendo di non poterne più.

Si trova a suo agio nell’Italia di oggi?
Poco. Vedo i giovani ogni anno sempre più incolti e smarriti. Hanno avuto tutto e in cambio non gli è mai stato chiesto niente. Arrivano all’università quasi analfabeti. L’altro giorno citavo un passo della Divina commedia. Alza la mano un ragazza: “Professoressa, mi può ripetere titolo e autore?”. Io, pronta a tutto, ripeto. E lei: “Mi può ricordare per favore la trama?”. Lo spreco della gioventù è tristissimo.

fonte: panorama.it
 

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