Alfredo Cattabiani, il non-conformista

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di Gianfranco de Turris

Un episodio che Alfredo Cattabiani ricordava spesso era quel che avvenne durante il suo esame di laurea. Avvenne che il professor Norberto Bobbio gli scagliasse contro la sua tesi. Indignato perché era scritta con i piedi oppure perché insostenibile? No. Indignato perché era dedicata al pensiero politico di Joseph de Maistre. Alfredo ritornava su quel fatto per dimostrare quale fosse il clima di intolleranza e intimidazione nella Torino culturale del 1960. Ma, ora che Alfredo Cattabiani è scomparso il 18 maggio scorso, dopo una stoica lotta di molti anni contro la malattia che – gliel’ho detto più volte – era da ammirare e da portare a esempio, si può ben dire che quella scena è veramente emblematica della sua vita, della sua battaglia editoriale, e riassume un po’ tutto il destino di un’area culturale. Combattere incessantemente contro chi non sa far altro che scagliarsi contro di te solo perché hai idee differenti. A priori. Per principio. Nessun “dialogo”, nessuna discussione, nessun confronto pari a pari. Nulla. E di questo Cattabiani ha fatto le spese sulla propria pelle. Un’esperienza che lo ha segnato per sempre.

Nato a Torino nel 1937, delle sue molte attività culturali – direttore editoriale e traduttore, giornalista e saggista, conferenziere e conduttore di programmi radiofonici – credo che in questa occasione sia necessario ricordare soprattutto la prima: quella appunto di organizzatore culturale e direttore di case editrici. Lo fece per quasi vent’anni, dal 1962 al 1979, prima per le Edizioni dell’Albero e per la Borla a Torino, poi per la Rusconi Libri a Milano. E’ qui, con il suo lavoro e la sua intelligenza, che ha dimostrato concretamente come fosse possibile opporsi all’“egemonia culturale comunista” (come la definì alla fine degli anni Ottanta Nicola Matteucci) quando se ne hanno le possibilità: sia traducendo autori del tutto trascurati o rimossi, sia scoprendo nuove firme italiane e straniere nella narrativa e nella saggistica. Che avesse capito quel che si doveva fare per contrastare il monopolio marxista e illuminista, stanno a dimostrarlo da un lato il successo commerciale delle sue scelte, dall’altro la forsennata ostilità dell’intellighezia progressista, incontrastata su riviste e giornali. Fosse stato un incapace e un mediocre non lo avrebbero preso in considerazione.

Con la sua direzione delle tre case editrici, Alfredo si propose, in crescendo di mezzi, di organizzare una produzione alternativa a quella dominante sotto diversi aspetti: culturale, ideale, religioso e metapolitico. Non amava le definizioni e le contrapposizioni politico-partitiche: il suo punto di riferimento era la cultura tradizionale, che però amava definire “sapienziale”. E nelle sue case editrici accolse tutte le varie anime di questa cultura, perché tutte si opponevano al degrado materialista e becero dominante allora come purtroppo oggi. Ecco perché pubblicò nelle Edizioni dell’Albero ad esempio La grande paura dei benpensanti di Bernanos o il libro contro Emmanuel Mounier di Primo Siena; ecco perché per Borla scoprì organicamente (in precedenza si conoscevano in italiano solo un paio di opere) Mircea Eliade messo al bando dagli storici delle religioni progressisti e marxisti con scuse politiche (è noto lo scontro Pavese-De Martino) traducendone diverse altre, la cui lettura ha aperto molte menti; e diede vita, sotto la direzione di Augusto Del Noce ed Elémire Zolla, a quella collana, “Documenti di cultura moderna”, che sotto un titolo anodino riuniva autori “tradizionali” delle più diverse tendenze, da Schuon a Rosmini, da Burckhardt a Weil, da Pallis a Seldmayr: autori e opere che offrivano una diversa “visione del mondo” ai giovani lettori di allora e che sono stati poi ripresi da altre case editrici sovente immemori di chi per primo li scoprì.

Molte di queste firme trasmigrarono alla Rusconi, una realtà organizzativa ed economica che permise a Cattabiani di impegnarsi a fondo nel suo progetto: ambizioso, al limite del temerario, ma in parte riuscito, almeno fino a che la casa editrice appoggiò il suo direttore. Cattabiani operava a tutto campo: collane prestigiose e costose, ma anche collane tascabili e a basso prezzo, classici di filosofia trascurati o riscoperti ma anche narrativa da premi letterari. Possiamo ricordare alcuni filoni che aprì Alfredo? Dalla fantasy nel senso più alto e nobile con Il Signore degli Anelli alla presentazione “vera” della civiltà dei pellerossa, dalla valorizzazione di autori sofisticati come Cristina Campo (poi riscoperta da Adelphi) a Guido Ceronetti (il cui romanzo Aquilegia ignorato quando uscì da Rusconi, venne salutato come capolavoro quando fu ristampato da Einaudi), dal revisionismo ante litteram di Carlo Alianello, al primo serio contributo scientifico contro il darwinismo con le opere di Sermonti e Fondi; impose un filosofo emarginato perché non progressita come Augusto Del Noce, oggi ritenuto un maestro; offrì al grande pubblico l’opera difficile ma fondamentale di René Guénon, sino a quel momento confinata ai suoi adepti (e proprio a Guénon dedicò una delle sue ultime uscite pubbliche partecipando ad un convegno del novembre 2001 organizzato a Roma dalla Fondazione Julius Evola: la sua bellissima prolusione d’aperturà apparirà negli Atti che sono in corso di stampa). La riscoperta del sacro è al fondo di molte sue scelte di saggistica e narrativa, il sacro inteso nel senso più vasto del termine. Ma anche sottrasse alla cosiddetta “grande editoria” narratori di spicco, come Giuseppe Berto e Giorgio Saviane, che improvvisamente divennero dei poco di buono.

Insomma, Alfredo Cattabiani non aveva la minima paura di gettare sassi nello stagno o, meglio, in piccionaia: e i piccioni non solo protestarono, ma attaccarono, calunniarono, insinuarono, iniziarono campagne diffamatorie e insultanti, non perdevano occasione per stroncare o per silenziare. Insomma, si comportavano come si era comportato il professor Bobbio. Anzi, fecero ancora di peggio, perché almeno quello di Bobbio fu un atto diretto ed esplicito. I “padroni della letteratura” (per riprendere il titolo di un pamphlet a più mani che Alfredo provocatoriamente pubblicò) usarono l’arma subdola dell’insinuazione: la Rusconi era nata proprio nel 1969-1970 perché faceva parte di un più ampio progetto di “restaurazione” non solo culturale ma politica. Dietro c’erano la Dc, i servizi segreti, i fascisti, la Cia.

Follie? No, carta canta. Parole pericolosissime: quelli erano gli anni della contestazione, di Piazza Fontana, stavano iniziando gli “anni di piombo”, le Brigate Rosse sequestravano e sparavano, gli scontri di piazza fra destra e sinistra frequentissimi, Milano in specie era un campo di battaglia permanente. Le insinuazioni, più o meno esplicite, servivano a ghettizzare, a mettere in difficoltà la Rusconi nei confronti non solo degli autori italiani che pubblicavano con lei, ma anche i recensori, addirittura i distributori ed i librai. Una casa editrice che si batteva contro il comunismo, lo scientismo, i luoghi comuni storici e culturali dei progressisti, doveva essere isolata e distrutta. Ci fu chi scrisse che intorno ad essa bisognava creare “un cordone sanitario”, quasi fosse un morbo epidemico… E alla fine ci riuscirono.

Il risultato fu che la Rusconi, assediata da ogni parte, non riuscì più a sopportare quell’attacco: l’unica cosa da fare era affiancare, spostare, esautorare poco a poco e alla fine costringere a gettare la spugna il responsabile di tanto scandalo. Nel 1979 Alfredo Cattabiani abbandonò la Rusconi, abbandonò il lavoro editoriale, abbandonò Milano e si trasferì a Roma dove inizierà una nuova vita ed un nuovo lavoro. Non fu persecuzione, quella? Che qualcuno osi negarlo ed osi dire si era all’interno di una normale “dialettica culturale”. Sarebbe importante che qualche giovane giornalista di buona volontà, o qualche giovane dottorando intelligente, andasse alla ricerca degli archivi editoriali della Rusconi e frugasse tra i carteggi e tra i ritagli-stampa, o magari trovasse il tempo per spulciare i fascicoli degli anni Settanta di riviste allora molto politicizzate, da L’Espresso a Panorama, da L’Europeo a Epoca, da Vie Nuove a Rinascita, le “terze pagine” dei giornali di partito (l’Unità, l’Avanti!, Paese Sera) o di opinione, dal Corriere della Sera a La Stampa, da la Repubblica a Il Messaggero. Ne verrebbe fuori non solo una storia veritiera della cultura italiana durante gli “anni di piombo” in cui le parole venivano usate come pallottole per decretare la morte civile e intellettuale di una casa editrice e del suoi direttore, ma se ne vedrebbero delle belle: firme che allora furoreggiavano per estremismo e intransigenza, per inchieste faziose, per definizioni acide e dileggianti, ora – magari – assurte agli onori della cultura del governo di centro-destra.

Alfredo dello stato di fatto della cultura attuale era ben consapevole: lo diceva a me come a molti altri, e lo scriveva apertis verbis in articoli e lo diceva in interviste. Non era amareggiato, ma indignato. Nonostante ciò, non aveva intenzione di scendere in polemiche dirette e “politiche”, e mi sconsigliava di farlo, mi rimproverava quando qualche volta, troppe volte, lo facevo. Ma poi sceglieva l’arma dell’ironia e, sotto sotto, del disprezzo: di fronte, mi diceva, abbiamo degli incolti, degli approfittatori, dei convertiti di bassa lega, perché prendersela? Per tutto quel che fece – ed è stato moltissimo e solo oggi se ne raccoglie qualche frutto – Alfredo non ha ricevuto praticamente nulla, anche sul piano materiale: dopo la chiusura de Il Settimanale all’inizio degli anni Ottanta, e si trovava in gravi difficoltà, qualcuno l’ha forse assunto in pianta stabile? E aveva poco più di quarant’anni. Quel che ha lasciato come retaggio culturale (al di là della sua opera di saggista) oggi ci appare fondamentale, e non glielo hanno ancora perdonato: non solo il silenzio assoluto o le striminzite notizie di agenzia pubblicate da alcuni “grandi giornali” alla sua morte, ma anche il ridimensionamento o la minimizzazione della sua persecuzione stanno lì a provarlo.

Volava forse troppo alto? Non direi. Era forse troppo intransigente? Nemmeno. Purtroppo lui, come alcuni altri, andava troppo contro i luoghi comuni del suo tempo, contro la cultura mercificata e banale da un lato, cinica e secolarizzata, ideologizzata sino alle midolla dall’altro. Però ci ha lasciato, oltre ai suoi libri, un’immensa eredità di indicazioni e suggestioni, di coraggio intellettuale e di esempio morale che non deve essere assolutamente dispersa. Se questo mondo che fugge ha come suo dio l’effimero e l’oblio, Alfredo Cattabiani, che pure è stato costretto a lasciarci troppo presto come avviene per i migliori, ci ha indicato il permanente e la memoria.

fonte: Ideazione 4-2003, luglio-agosto

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