di Piero Gheddo
L’allarme continua a risuonare, sempre uguale eppure sempre più forte: nel 1996 c’erano 830 milioni di affamati nel mondo; oggi a soffrire sono un miliardo e venti milioni di persone. Un popolo sterminato davanti al quale è impossibile chiudere gli occhi. Il segretario generale della Fao, il senegalese Jacques Diouf, afferma che questa è «la peggiore crisi di fame nel mondo degli ultimi quarant’anni» e spiega che «servono circa 44 miliardi di dollari» per ingaggiare e vincere la battaglia. Richiesta sacrosanta, che rimbalza nei mass media internazionali, ma a quanto pare – oggi come ieri – senza la minima possibilità di ottenere più di un’eco. Il mondo è ancora in crisi economica, e a tutti sembra che la fame di così tanti esseri umani sia soprattutto il risultato di una mancanza di soldi.
Da cinquant’anni visito l’Africa. Il ritornello che più spesso ho sentito ripetere da missionari e volontari italiani tra i contadini più poveri e meno istruiti è questo: «Qui si produce troppo poco per mantenere un Paese come questo, la cui popolazione aumenta rapidamente». La Fao stessa, sin dal principio di questo terzo millennio, segnala che l’Africa profonda importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, grano, mais). E io cito spesso questa esperienza esemplare e significativa: a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale dell’Africa a sud del Sahara 5 quintali. La differenza tra 80 e 5 è l’abisso che c’è tra ricchi e poveri del mondo. E si noti, la minor produzione non è data dalla mancanza di macchine, ma dalla poca istruzione del contadino africano. Le campagne africane sono un cimitero di trattori che non funzionano, di pozzi da cui non si sa più tirar su l’acqua.
In altre parole, i soldi per lo sviluppo ci vogliono e tutti ci auguriamo che il mondo sviluppato tiri fuori i 44 miliardi richiesti dalla Fao. Ma assieme ai finanziamenti e alle tecnologie sono indispensabili uomini e donne che consacrino la vita (o qualche anno della loro vita) per compiere con le popolazioni locali un cammino di crescita comune, anche in campo agricolo. Giovanni Paolo II scriveva nella Redemptoris Missio (n. 58): «I missionari sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi». Visitando l’Africa rurale, si incontrano fiorenti poli di sviluppo tra popolazioni poverissime, originati da missionari e da volontari che hanno puntato sulla sviluppo umano della gente del posto.
Bisogna rendersi conto del fatto che i governanti africani, per mille motivi fra i quali anzitutto la corruzione e anche per la vastità del territori loro affidati, trascurano le campagne (e magari le cedono a società o, direttamente, a potenze straniere). In molti villaggi africani si ignora la ruota, la carriola e il carro agricolo (le donne portano tutto sulla testa), l’aratro, i fertilizzanti, il piccolo mulino ad acqua, l’irrigazione artificiale, la piscicoltura nei laghetti artificiali… Ma chi va a insegnare la via verso queste piccole e decisive rivoluzioni non violente?
E ancora: il 50% degli africani è analfabeta e molti di quelli già “alfabetizzati” non sanno più leggere né scrivere. Come può svilupparsi un popolo semi-analfabeta in un mondo come il nostro? Dell’emergenza educativa in Africa, però, non si parla mai. Si parla – quasi sempre senza seguito – di aumentare gli aiuti economici, dei prezzi delle derrate alimentari e di altre situazioni che opprimono i popoli più poveri e meno istruiti, che non hanno la forza e, spesso, nemmeno la coscienza di dover protestare. Eppure lo sviluppo di un popolo parte dall’interno del popolo stesso e passa inevitabilmente per l’istruzione. Primo investimento strutturale contro il sottosviluppo, la sottomissione e la corruzione.
fonte: avvenire 16 nov. 2009