di Giulio Tremonti*
Grazie, la macchina scenica e dialettica della politica ci offre molte occasioni di scontro, e poche occasioni di incontro. Per questo grazie, è sempre importante sentire le idee degli altri. È interessante sentire le idee di LaRouche, è interessante sentire le idee di Gianni, soprattutto quando Gianni esprime le sue idee e non le mie. Cosa posso dire in pochi minuti? Primo: della rivista di LaRouche, io ho sempre apprezzato la profondità delle visioni, la suggestione delle visioni, e anche la cifra storica. Non è frequente leggere documenti che tracciano degli scenari di lungo respiro, di grande dimensione, ne abbiamo ascoltato qua un saggio. Non è frequente leggere documenti in cui trovi importanti citazioni della storia – fondamentalmente europea, perché fino a qualche secolo fa la storia era europea e non americana.
LaRouche ha iniziato citando la grande crisi di qualche secolo fa in Europa, e ne ha derivato delle similitudini, e delle prospettive. Poi ho sentito Gianni. Io la vedo così. Primo, sicuramente viviamo in un tempo non banale. Viviamo in un tempo che sotto l’apparenza del continuum della normalità, in realtà ci fa vedere dei segni di rottura, di potenziale crisi, di drammatica trasformazione. Non concordo – ma credo che sia qui abbastanza marginale – non concordo sulla ricostruzione storica. Io ho espresso una visione un po’ diversa nei miei scritti, nei miei libri. Io credo che le trasformazioni intervenute nel mondo siano meno riferite agli anni Settanta, e più riferite alla fine degli anni Ottanta. La caduta del sistema politico che bloccava il mondo, l’avvento del computer, le trasformazioni che conseguentemente intervengono nella struttura e nella dislocazione della ricchezza.
Io ricordo, delle cose che ho scritto, quella che mi è più cara è un articolo, un fondo per il Corriere della Sera nel luglio del 1989. Era l’anno bicentenario della rivoluzione francese e il mio articolo era più o meno così: come l’89 fu l’anno di avvento della costruzione della macchina politica dello stato nazionale, così questo sarà l’anno di avvio, simbolico (tenete conto che luglio viene prima di novembre, e quindi era prima della caduta del muro di Berlino) sarà l’anno dell’avvio di rivoluzioni extraparlamentari, prodotte da una cascata di fenomeni connessi alla struttura della ricchezza. La crisi dello stato nazione che perde il monopolio della ricchezza. Un tempo lo stato nazione controllando il territorio controllava la ricchezza, controllando la ricchezza esercitava la forza politica, aveva il monopolio della legge, della tassazione, della giustizia. Quando la ricchezza è dematerializzata, finanziarizzata si spezza l’antica catena fondamentale politica: stato, territorio, ricchezza. Lo stato resta a controllare il territorio, ma non controllando più la ricchezza, perde forza. Questo processo in Europa continentale è accelerato dalla costruzione dell’Europa. Io considero più rilevante come data il ’94, quando fu fatto il WTO, ho scritto anche un libro in cui metto per anni: 5 anni dall’89 al ’94, cinque anni dal ’94 al ’99/2000, e le varie meccaniche di reazione e di sviluppo. Insomma, certo viviamo in una fase, se posso dare un’immagine, è come il vecchio ordine europeo che si rompe con l’avvento degli spazi atlantici e l’età barocca viene detta mundis furiosis, così noi viviamo in una fase in cui il vecchio ordine, in qualche modo rotto da strutture e da fatti che lo sovrastano, e la visione, la gestione, di quello che ci arriva e che vediamo è oggettivamente abbastanza problematica.
Non condivido, e credo ci sia, come dire, anche lo spazio anche per visioni meno catastrofiche, più ottimiste, che gli strumenti che si possono mettere in campo sono magari anche diversi da quelli che sono stati prospettati, ma ci accomuna l’idea che viviamo, ripeto, in un mondo non normale, non banale, con delle mutazioni in atto e degli effetti che vedremo.
Come posso concludere? Cercando anche degli elementi di, come dire, non di identità, ma di comune possibile visione. Io ho sempre pensato che fosse giusta la formula “market if possible, government if necessary”. Questo esclude la qualifica dogmatica che mi ha appena fatto Gianni, del tipo “tu credi a…” Io credo che empiricamente siano possibili delle combinazioni che siano fuori dagli schematismi e delle combinazioni che siano fuori dalla cultura attualmente dominante che io mi sono permesso di definire mercatista, intendendo il mercatismo come la sintesi degli elementi peggiori del liberalismo e del comunismo. Faccio un esempio, ne faccio due, di politiche che potrebbero essere messe in campo in questa logica. La vera difficoltà è soprattutto culturale, cioè, tu devi battere degli ostacoli che non sono fisici, non sono economici, sono mentali. I veri ostacoli che incontri nell’affermare delle idee relativamente nuove non sono ostacoli fisici, sono ostacoli ideologici. Il blocco mentale dominante, la cultura dominante, e faccio due esempi. Nel 2003, durante il semestre di presidenza italiana dell’Europa, ho fatto la proposta di una nuova edizione del vecchio piano Delors. Il piano Delors prevedeva emissioni di debito europeo per finanziare infrastrutture europee. Alla metà degli anni Novanta, quando l’idea viene presentata incontra dei limiti culturali e degli ostacoli. Quando l’ho ripresentata nel 2003, gli ostacoli sono stati diversi nei contenuti ma simili nel filone culturale. Io ricordo che l’obiezione più intelligente me la fece Gordon Brown, che disse – allora era il Cancelliere dello Schacchiere inglese – disse “nice” interessante, però emettere Eurobond vuol dire Euro-budget; Euro-budget vuol dire Euro superstate. No, grazie. Quindi, una negazione politica. La posizione del suo paese era diversa rispetto a quella di una costruzione politica europea.
La reazione opposta fu quella, e devo dire meno apprezzabile, meno condivisibile, fu quella opposta da altri grandi paesi dell’Europa continentale, che era essenzialmente monetaria, bancaria, del tipo “non vogliamo il debito pubblico, europeo o nazionale” comunque no a maggiore debito pubblico. La mia risposta fu, gli Stati Uniti d’America cominciano nel loro tragitto politico con il debito pubblico; Hamilton. Hamilton presenta il debito pubblico americano come base di costruzione della unione politica. Quindi cercavo di dire: non sto prospettando un’operazione finanziaria, sto prospettando un’operazione politica. L’emissione di Eurobonds potrebbe finanziare dei piani europei che producono non tanto leva finanziaria, quanto identità politica dell’Europa.
La risposta fu tipica del banchiere centrale o della persona d’economia, del tipo, la contrarietà in assoluto. A prescindere dalle quantità, se fate caso, fu la spaventosa forza monetaria dell’Euro, con la credibilità e il peso che ha il sistema monetario europeo, l’emissione di cinquanta miliardi, quanto servirebbe per esempio a finanziare l’agenda di Lisbona, è in realtà marginale, non rilevante in termini economici. Io cercavo di dire, è arrivato il momento di estrarre il dividendo di Maastricht. La reazione fu in assoluto negativa, cioè il rifiuto di entrare su uno schema culturale che era, come lo possiamo definire, Keynesiano? Delors si riconosceva in una filosofia politica keynesiana. Io assolutamente continuo a riconoscermi in quella via. L’alternativa fu non di second best. Forse second ma non best, fu un piano, Action Plan for Growth, che certo era in qualche modo garantito in parte dagli stati, arrangiato dalla Banca Europea degli Investimenti, ma fondamentalmente privo dello spirito protettivo. Per inciso non so neanche se è andato avanti l’Action Plan, se è arrivato a finanziare alcune grandi infrastrutture.
Secondo punto. Non so se risponde alla visione dominante in Italia, ma nel ’95, l’anno dopo la fondazione del WTO ho scritto un libro intitolato “Il fantasma della povertà”. I capitali escono dall’Occidente, vanno in Asia alla ricerca di mano d’opera a basso costo, l’Europa importa povertà; importa povertà perché le nostre antiche aristocrazie operaie, i nostri salariati, avranno salari e stipendi livellati sull’Oriente, ma il costo della vita resterà quello occidentale. E la mia idea era grandi investimenti in capitale umano, le cosiddette tre i, e l’uso per esempio per la formazione della RAI. Non puoi competere con la Cina sulla forza delle braccia, devi competere con altri investimenti, pubblici, l’uso politico, pubblico, per la formazione della RAI, che è uno strumento fondamentale.
Un’altra cosa che ho cercato di presentare successivamente fu, vedendo quello che succedeva nel nostro paese dopo il 2001, era l’idea di introdurre, nel rispetto del WTO, nel rispetto delle regole europee, dazi e quote. Non per fermare il mondo, non per mettersi fuori dal mondo, ma per guadagnare un po’ di tempo per riconvertirci. Io ricordo, e devo dire, che l’idea dei dazi e delle quote fu assolutamente fulminata da tutta la classe dirigente e anche dalla classe politica italiana. Io francamente non mi aspettavo solidarietà dalla sinistra, ma francamente non mi aspettavo quel grado di ostilità ad un’idea che invece mi sembrava in qualche modo ragionevole. Noto che adesso nel sistema culturale, nel circuito culturale del partito democratico americano, si parla di dazi e di quote. Può essere un’idea giusta o sbagliata, ma non puoi demonizzarla a priori e perché.
Allora, come concludere, ricordo che la prima volta che mi colpì LaRouche fu con un documento che parlava della grande infrastruttura eurasiatica, e dissi: magari è impossibile farla, magari è la visione di un matto, ma di solito anche sulle visioni del matto cammina la storia. E devo dire che in effetti, in un età in cui il ruolo dei governi è fortemente limitato oltre il necessario, in cui c’è un eccesso di adorazione simbolica per la ricchezza intangible, finanziaria, immateriale, è necessaria una limitata considerazione per elementi che sono comunque fondamentali, come le infrastrutture materiali. Io sono convinto del fatto che idee di quel tipo, le vostre idee, devono circolare. Il fatto che ne parliamo da lati politici diversi, comunque ne parliamo con una logica non negativa a priori, non fanatica, è certamente molto positivo. Grazie.
*Intervento di Giulio Tremonti alla tavola rotonda con LaRouche e Alfonso Gianni su “Mercatismo o New Deal” tenuta dall’EIR all’Hotel Nazionale (Roma) il 6 giugno.
tratto da: movisol.org