Il Noi di Veltroni e il Super-Ego di Berlusconi

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di Antonio Polito
La nostalgia dei tempi del Noi in un paese dominato dall’Io
L’ultima fatica letteraria di Walter Veltroni e l’ultimo articolo di Romano Prodi sono due contributi al dibattito nella sinistra italiana di gran lunga più interessanti di quanto i due autori ci abbiano mai detto da leader, perché incarnano l’ultimo immaginario di quel popolo. Entrambi hanno flirtato a lungo con la cosiddetta «sinistra liberale», con la Terza Via, con l’Ulivo mondiale, con John F. Kennedy e con Bill Clinton. Ma entrambi, ora che sono a casa e dispongono di molto tempo libero per riflettere, sono tornati alle loro rispettive radici culturali, in realtà mai abbandonate. Che sono poi sintetizzabili proprio nel titolo del romanzo di Veltroni: la centralità del «Noi».
Mi spiego. Il pensiero liberale – e dunque anche quello della sinistra liberale di origine non marxista, che esiste eccome in Europa e nel mondo – ha come categoria fondante l’«Io». L’individuo, o la persona se preferite. La sua realizzazione, il suo successo, il suo progetto di vita, la sua grinta nel perseguirlo: la sua felicità, per dirla con la Costituzione americana.
Cercando di promuovere se stesso, l’Io sviluppa quella forza motrice che migliora anche la società in cui vive. Esercitando appieno la sua libertà, l’Io accresce il benessere e la libertà di tutti. Non è affatto vero, come lascia capire Prodi, che questo pensiero non sia altro che neo-liberismo camuffato. Per Margaret Thatcher, non esisteva «una cosa chiamata società», ma solo gli individui. Per Tony Blair, invece, la società esiste; ma solo gli individui, con la loro azione, possono renderla migliore, non certo quell’entità astratta, occhiuta e spesso inefficiente che è lo Stato.

La sinistra liberale sa che lo Stato non è la soluzione dei problemi degli individui, ma spesso è il problema. Pensa che siano gli individui a sapere che cosa è meglio per loro, e se lasciati liberi di prosperare l’intera società ne trae profitto. Sostiene che lo Stato deve intervenire per rimuovere gli ostacoli al successo individuale (Costituzione italiana) e per tendere una rete di protezione a vantaggio di coloro che, in questa scalata, non ce la fanno.

Invece, per il pensiero solidaristico, sia marxista che cattolico, il soggetto della Storia, e dunque del progresso, è il Noi. I grandi movimenti collettivi, le masse organizzate, il popolo del Novecento. Del quale si presume la volontà generale, che lo Stato è chiamato a interpretare e realizzare. Quando Veltroni condanna «l’egoismo e l’individualismo» come mali della società italiana contemporanea anche peggiori di Silvio Berlusconi medesimo, ci indica implicitamente come virtù i loro opposti. L’opposto di egoismo è «altruismo»; l’opposto di individualismo è «collettivismo».

Il punto è che altruismo e collettivismo non sono più, almeno dagli anni Ottanta, concetti politici spendibili nelle moderne società del benessere. Hanno fatto il loro tempo nella grande stagione dell’età dell’oro socialdemocratica, dalla fine del conflitto mondiale fino allo shock inflazionistico degli anni Settanta. La gente aveva allora un ricordo ancora così forte della sofferenza e dei rischi comuni della guerra da accettare lo scambio tra minori possibilità di successo individuale e maggiori assicurazioni e protezioni collettive. Dalla fine degli anni Settanta in poi, non è più così. Non a caso, è in quel momento che nasce il cosiddetto neo-liberismo, prima con Margaret Thatcher e poi con Ronald Reagan, dopo il quale la sinistra non potrà mai più essere la stessa di prima.

Questa nostalgia del Noi, elevata a dignità letteraria nel romanzo di Veltroni e indicata come motivo dell’insuccesso del suo governo nell’articolo di Prodi, non solo è inattuale, perché non corrisponde più alla società italiana di oggi. È anche pericolosa. Per due ragioni. La prima è che se una politica di progresso è giudicata impossibile in presenza di egoismo e individualismo così diffusi, non c’è niente da fare se non aspettare una palingenesi culturale e antropologica. E, a quel punto, effettivamente romanzi e articoli servono più della politica. La seconda ragione è che ogni volta che si esalta un Noi, si indica implicitamente anche un Voi. E quel Noi generico e aulico diventa allora un noi-noi, la nostra parte politica, quelli che la pensano come me, la nobile minoranza che condivide la mia stessa nostalgia. Mentre voi, gli altri, la maggioranza che state dall’altra parte, siete ciò che impedisce a noi, i migliori, di trionfare. Il che equivale – se mi si passa la battuta – alla più perfetta delle vocazioni minoritarie.

Ha ragione Nicola Rossi, che l’ha detto al nostro giornale: ciò che la sinistra italiana, anche quando era guidata da Prodi o da Veltroni, non è mai stata capace di fare è proprio questa complessa e difficile operazione: trasformarsi da collettivista in liberale, mettere l’Io al posto del Noi. Blair usava dire: noi siamo con i poveri, con chi non ce la fa, con chi ha bisogno di aiuto; ma anche con le famiglie che stanno bene perché lavorano duro ma vogliono stare meglio, che sentono la spinta ad accrescere il loro benessere, ad assicurare un futuro migliore ai loro figli. Come si fa a non vedere che è questa Italia a non fidarsi della sinistra? E come si fa a non vedere che questa Italia è in maggioranza? E come si fa a non ricordare che l’unico attimo di popolarità del governo Prodi ci fu quando attaccò le corporazioni del Noi (tassisti, farmacisti, benzinai) in nome dell’Io-consumatore, mentre il suo picco più basso fu quando si lanciò in astruse operazioni di ingegneria sociale sulle aliquote fiscali?

La rivoluzione liberale sarebbe accettare l’idea che l’individualismo non è sinonimo di egoismo sociale. Mentre da noi la sinistra si trova a suo agio solo con i grandi soggetti collettivi e organizzati, rispetta e teme soltanto ciò che comincia per Conf, dalle Confederazioni sindacali alla Confindustria, dalla Confcommercio alla Confesercenti. Ma non sa nulla di tutti coloro – e in Italia sono molti di più che negli altri Paesi europei – che ogni giorno si muovono nella giungla della società allo stato brado, contando solo su se stessi, senza nessuna Conf che copra loro le spalle. I piccoli: piccoli imprenditori, piccoli risparmiatori, piccoli proprietari di case, piccoli commercianti, piccoli artigiani. Quei piccoli di cui la cultura di sinistra sorveglia e critica il 740 molto più di quanto si sia permessa di fare con quello di Gianni Agnelli.
È per questo che, mentre la sinistra vive di nostalgia del Noi, l’Io degli italiani è finito ostaggio del Super-Ego di Berlusconi. Triste epilogo per la sinistra, certo; ma più ancora per l’Italia.

Fonte: Il Riformista – 25 agosto 2009

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