Il principe degli spin doctor, Alastair Campbell, racconta a una platea di “comunicatori” le regole fondamentali per una buona strategia comunicativa. Le tre vittorie di Blair sono nate (anche) così

campbell-blair.jpg
I comunicatori sono sempre esistiti. I PR sono sempre esistiti. Lo spin è sempre esistito. Basta leggere la Bibbia, diamine. La novità non è lo spin, ma la realtà di un’epoca di media globalizzati, l’economia dell’informazione, un mondo in cui la tecnologia accelera il ritmo del cambiamento in modo esponenziale. E non ci sono mai stati prima sistemi politici e mediatici che, in democrazia, quando qualcuno prova a mentire lo spingono a dire la verità, e mettono pressione su chi non lo fa. Ma mentre cresceva, a vantaggio dei cervelloni e dei guru aziendali, l’industria delle public relations ha prestato un pessimo servizio a se stessa: oggi pare davvero che “PR” e “spin” siano sinonimi di stronzate, bugie, depistaggi.

Viene da chiedersi: se i comunicatori sono bravi a comunicare, com’è possibile che la comunicazione abbia una reputazione così drammatica?

La risposta, dal mio punto di vista, è che i comunicatori non sono poi così bravi, ma anche che i veri spin doctor, nel mondo d’oggi, sono i giornalisti, quelli della tv, i blogger, e tutti loro vogliono far credere ai propri lettori di possedere il monopolio della verità, e in modo più o meno sottile suggeriscono di ignorare chiunque altro: i politici, i loro portavoce, le aziende e i loro consulenti, gli stati e i loro “brand manager”.

Tutto è comunicazione

Sotto questa facciata si nasconde un cambiamento rispetto ai decenni passati, quando le notizie e i commenti, i fatti e le opinioni erano distinte più di oggi; la gente dava per scontato che i governi e i leader e le aziende volessero farsi propaganda da sé e che avessero tutto il diritto di farlo. Oggi le cose sono più complesse. Nonostante questa cattiva nomea, l’industria della comunicazione continua a crescere e resta fondamentale per le economie, i governi, le imprese, gli individui che si trovano esposti all’occhio del pubblico. La gente ci pensa di più, agisce di conseguenza, perché – ci piaccia o no – viviamo in un’epoca mediatica.

Per chi comunica – sia un governo o un ministro, un’azienda o un imprenditore, una ong o una celebrità – l’interazione con lo spazio pubblico è diventata più complicata: per questo la domanda di semplicità è più forte.

In un mondo più caotico, si cerca maggiore chiarezza. In un mondo di innovazione continua, si cerca conforto nelle cose note e familiari. In un mondo di negatività, si cerca maggiore speranza. Ma in un mondo con più scelta e più informazione, la gente è più brava a distinguere la realtà dallo spin, il buono dal mediocre, fa più in fretta a formarsi un giudizio sulle cose. E in genere ha ragione.

Voglio raccontarvi una storia su Bill Clinton.

Facevo sempre infuriare TB (Tony Blair, ndt) quando dicevo che Clinton era il più grande comunicatore strategico con cui avessi lavorato. Tony pensava di essere lui il migliore. Se oggi vi dico: «Quando Clinton ebbe i suoi problemi…», qual è la prima immagine che vi viene in mente? Le guerre con cui ha fatto i conti? Le crisi economiche? Le riforme della pubblica amministrazione? No, ciascuno di voi ha pensato a Monica. Quanta cattiva stampa si è beccato in quel periodo? A tonnellate, in tutto il mondo. Eppure…

Il giorno che il rapporto Starr fu pubblicato, Clinton era al telefono con Tony. Parlarono di Irlanda e Russia. Lo so perché c’ero. Qualche anno dopo, quando uscì il suo libro, feci un’intervista con lui in televisione. Gli chiesi se si ricordava quella conversazione. Se la ricordava. Gli chiesi come avesse fatto a concentrarsi su cose come l’Irlanda e la Russia mentre tutta la sua vita, personale, politica, professionale, era sull’orlo di cadere a pezzi intorno a lui. Mi rispose così. Avevo un obiettivo semplice, la sopravvivenza. La mia strategia era alzarmi ogni giorno e concentrarmi solo sulle cose che avrei potuto fare, perché ero il presidente. E la tattica era accertarmi che la gente sapesse quello che stavo facendo. Sono state le persone a sostenermi.

Decalogo dello spin doctor

Adoro questa storia. Anche perché la regola “obiettivo-strategia-tattica” – O.S.T. – è sempre stata in cima alla lista delle dieci linee guida per la leadership che avevo su una cartolina che portavo sempre con me.

1. OST. 2. Sii coraggioso. 3. Sii malleabile. 4. I migliori leader in una squadra sono quelli che fanno più gioco di squadra. 5. Resta calmo durante le crisi. 6. Ascolta, ma dà tu la linea. 7. Trasforma i problemi in opportunità. 8. Sei TU a dettare l’agenda. 9. La testa oltre l’ostacolo. 10. Occhi puntati alla vittoria.

Ma OST è la più importante. Quel giorno Clinton disse un’altra cosa che mi colpì: «Troppi decision maker definiscono la propria realtà in base ai media di giornata. È quasi sempre un errore». La tattica ha preso il sopravvento in troppe organizzazioni. Governi che oscillano da un giorno all’altro. Aziende che credono che un trend su Twitter corrisponda in qualche modo alla popolarità di un prodotto. Può essere. Ma vende? E la strategia è chiara?

Di recente ho lavorato con un leader politico che mi ha chiesto: «Come faccio a fare la cosa giusta rimanendo popolare?». Gli ho risposto: «Fai la cosa giusta». Ma falla all’interno di una chiara cornice strategica, ti confronti costantemente col pubblico, metti in piedi sistemi di coordinamento che funzionano, in modo che col tempo il tuo messaggio arrivi al bersaglio, col tempo i tuoi cambiamenti siano compresi, col tempo la gente diventi più ragionevole nei suoi giudizi. Quello che fai è più importante di quello che dici, ma come lo dici può aiutarti se stai facendo la cosa giusta.

Com’è nato il New Labour

Ogni volta che dici o fai qualcosa, metti a segno un punto.

Prendiamo la mia esperienza col New Labour.

Ok, nel 1997 avevamo di fronte un governo stanco, debole e diviso, ma non è mai abbastanza, e di certo non è abbastanza per vincere bene. Sì, Tony Blair era un leader giovane e accattivante e un bravo comunicatore. Ma neanche questo basta. C’è bisogno di una strategia, e che sia così chiara, così forte, così ben ragionata che nessuno possa avere dubbio su quale sia il punto. Nessuno nel partito, nessuno fuori. E le migliori strategie possono essere comunicate in una parola, in una frase, un paragrafo, una pagina, un discorso e un libro.

La parola: modernizzazione. La frase: New Labour New Britain. Il paragrafo: per molti non per pochi, il futuro non il passato, leadership non oscillazioni, l’educazione è la priorità numero uno. Vi risparmio il resto, ma alla fine dell’incontro potete comprare il libro.

Non c’è nessun rapporto di comunicazione pubblica più diretto di quello tra un partito politico e l’elettorato, specie se arrivi dall’opposizione. Avevamo trascorso tre anni con TB come leader, prima delle elezioni. Il mio obiettivo era che entro il voto, quando la sua faccia appariva sullo schermo, o quando la gente vedeva lo slogan, avesse un’idea chiara su quello che sarebbe accaduto, a prescindere dalle parole del giornalista o dell’intermediario di turno. E l’idea se la sono fatta grazie a tutti i puntini che, messi insieme, formavano la figura intera.

Se il messaggio non dice “modernizzazione”, meglio evitare. Se una proposta politica sa di passato, non di futuro, non farla. E ricorda che, come qualunque cosa buona nella vita, la comunicazione di una strategia nel tempo è un gioco di squadra: in questo gioco c’è lo “spogliatoio”, la squadra interna, ma bisogna anche costruire una squadra “esterna”, con le persone che vuoi raggiungere, che da sostenitori passivi diventano attivisti.

Perché nessuno si fida dei politici

Non c’è da stupirsi che il tweet più ritwittato di sempre sia di Obama. Le sue campagne elettorali hanno portato i social media a un nuovo livello. Molta dell’attenzione è andata alla raccolta fondi. Diciamocela tutta: i soldi sono arrivati dai grandi donatori, e la storia che fosse tutto “un dollaro qua, cinquanta dollari là” è stata – fatemelo dire – buona comunicazione. Il vero colpo di genio è stato usare i social media per scovare quei sostenitori di cui non si sapeva nulla, trasformarli in attivisti, e convincerli a trovare nuovi sostenitori da trasformare a loro volta in attivisti.

È questo il punto. La gente non si fida più dei politici come una volta. Non si fida più della sincerità dei media come una volta. Non si fida delle banche e delle aziende. Di chi ci fidiamo allora? Ci fidiamo l’uno dell’altro. La gente si fida dei suoi amici – ecco la genialità di Facebook, il concetto di “amico”. Di recente ho incontrato una signora, a Liverpool, che mi si è presentata dicendo: «Non mi conosci, ma siamo amici». Mi ci è voluto un attimo a capirlo, ma sì, c’era un legame. E l’amico dell’amico dell’amico è uno strumento strategico fondamentale per mettere insieme i puntini e dipingere l’immagine che vuoi dipingere. Il tuo messaggio dev’essere così chiaro che persino un ragazzino con una matita può afferrarlo e trasmetterlo.

Questa chiarezza è il contributo che quelli come me e voi possono dare a governi, aziende, “cause” che hanno moltissime interconnessioni ma spesso portano avanti attività confuse e contraddittorie

Ragionate sul perché la gente si rivolge a quelli come noi. Spesso perché le cose vanno per il verso sbagliato. Perché hanno un’idea ma non riescono a spiegarla. Perché hanno dei piani – ma i piani non stanno andando secondo i piani. Perché credono che quello che fanno è grandioso, ma i media non sono d’accordo. Allora vogliono una presenza digitale rinnovata, o una serie di incontri con qualche opinion leader, o un nuovo slogan. Tutte cose fattibili. Ma nessuno si accorge di quello che di solito è il vero problema. Non c’è chiarezza su chi sono loro, che cosa fanno, qual è il loro Dna.

Questione di strategia

Cogliere il cuore del Dna e il cuore di una buona comunicazione pubblica. Ha poco o nulla a che fare con la tua capacità di piazzare una recensione qua e là o di far comparire l’amministratore delegato in un articolo di una rivista da aereo o magari di organizzare una bella cena con una manciata di editorialisti autoreferenziali. Queste sono tutte tattiche. Ma l’obiettivo e la strategia vengono sempre prima. Chiedete alla maggior parte dei leader, degli amministratori delegati, delle ong, dei dottori, degli insegnanti, dei poliziotti, degli scienziati, dei vip – o dei semplici cittadini, oggi, per via dei social media – quale sia il loro bene di consumo più importante: in alto nella lista, se non in cima, c’è la reputazione. Che si costruisce a partire da diverse cose. Il curriculum. I valori. Le attitudini. I risultati raggiunti. I fallimenti in cui si è incappati. Gli alti e i bassi. L’aspetto, o il carisma. L’abilità mediatica. Ma soprattutto, secondo me, si costruisce sulla strategia.

Quando è morta Margaret Thatcher. E ancora quando Alex Ferguson ha annunciato che avrebbe lasciato il calcio. Entrambi hanno avuto frotte di nemici, alti e bassi, momenti in cui le cose andavano male. Abbiamo vinto tre elezioni anche dicendo che i giorni della Thatcher erano finiti. Alex Ferguson una volta si trovò a una partita di distanza dal licenziamento. Ma alla fine dei giochi anche i nemici della Thatcher, e quelli di Fergie, hanno riconosciuto che nella battaglia tra il lungo periodo e il breve, tra la strategia e le tattiche, hanno vinto loro. Le loro reputazioni si sono rafforzate nel tempo, perché loro sapevano che si tratta di una guerra. In mezzo ai rumori del campo, lo stratega deve dettare i tempi del gioco.

La prima discussione di politica che mi ricordo risale a quando avevo sette anni, il giorno di Natale, e non riuscivo a capire perché dovessi starmene seduto ad ascoltare la Regina che mi diceva cosa le passava per la testa. Io volevo giocare a pallone.

È stato strano anni dopo, quando morì la principessa Diana, essere introdotto a Palazzo per dare una mano a gestire la situazione di quei giorni straordinari: c’era la sensazione, a volte, che qualcosa di simile a una rivoluzione fosse nell’aria. Se dovessimo chiederci qual è la personalità pubblica che ha goduto della reputazione più positiva nel mondo, nell’arco delle nostre vite, probabilmente risponderemmo Nelson Mandela, ma di certo la Regina sarebbe molto vicina al primo posto.

Tanti alti e bassi, sicuro. Eppure lei è la personificazione della regola numero uno: non ti devi fermare mai. Ed ecco una cosa interessante: la Regina non ha mai concesso interviste. Ma – è sicuro come l’inferno – lei ha un obiettivo: restare al suo posto. E sa alla perfezione – sicuro con l’inferno – qual è la strategia per raggiungere quell’obiettivo, chiedetelo a Murdoch o a molti altri. Ogni volta che mette a segno un punto – con uno dei suoi abiti, un viaggio, un gesto – è come ribadire lo stesso concetto, ancora una volta, e ancora, e ancora.

fonte: Europa Quotidiano

Potrebbe anche interessarti...

Articoli popolari