Il vero problema dell’Italia non è quello di far nascere e crescere start-up che operino nelle tecnologie avanzate. Ma quello – molto più generale – di disinceppare uno dei meccanismi fondamentali dello sviluppo dell’economia del paese: far nascere e crescere nuove imprese, in modo da rimettere in moto il processo di normale ricambio.
di Umberto Bertelè
Non è un problema da accademia della crusca quello che voglio porre, di critica al ricorso eccessivo alle parole estere. È un problema invece di percezioni, di significati diversi spesso attribuiti – nella testa della gente – a termini che dovrebbero semplicemente essere la traduzione l’uno dell’altro. E conseguentemente di sensibilità e di peso nell’agenda politica.
Il termine start-up, per la maggior parte di coloro (temo non tantissimi) che ritengono di conoscerne il significato, ha tutto il fascino delle parole esotiche. Evoca la California, evoca la Silicon Valley, evoca imprese come Apple, Google, Cisco e Intel, piuttosto che (fra le più recenti) Zynga, LinkedIn e Twitter. Evoca l’interesse a far crescere anche in Italia nuove imprese che si muovano sulla frontiera della tecnologia, mettendo in campo una serie di incentivi pubblici e promuovendo lo sviluppo di strutture – quali business angel e venture capital – in grado di finanziarne le prime fasi del ciclo di vita.
Il limite che io vedo in tutto questo: che la promozione delle start-up venga vissuta come una sorta di optional, come una ciliegina sulla torta, e non come un problema vitale per il nostro paese.
Perché la creazione di nuove imprese è un problema vitale.
Far nascere nuove imprese rappresenta una necessità sempre, se non altro per rimpiazzare – anche se solitamente in settori e attività diversi – quelle che muoiono: perché acquisite e inglobate da altre, perché chiudono i battenti per evitare situazioni peggiori, perché falliscono.
Tutte le statistiche, benché fatte in momenti e paesi diversi, concordano sul fatto che la vita media delle imprese è sensibilmente inferiore a quella degli umani. E che si sta allargando ulteriormente la forbice, perché migliorano le aspettative di vita per i secondi, mentre aumentano i rischi di morte quasi istantanea, senza segnali premonitori, per le prime: come mettono bene in luce nel loro recentissimo articolo “Bing Bang Disruption” Larry Downes e Paul F. Nunes con una serie di esempi (la fotografia digitale che uccide la tradizionale, gli smartphone che con le loro diverse funzionalità penalizzano macchine fotografiche e orologi e modificheranno i sistemi di pagamento, le app con le mappe che ridimensionano drasticamente le vendite di navigatori portatili, e così via).
Far nascere nuove imprese è una necessità, ma i dati dimostrano come larga parte delle imprese che nascono attualmente abbiano come imprenditori immigrati senza particolari titoli di studio e riguardino piccole attività commerciali e di servizi: attività cioè che permettono di partire in piccolo, con un fabbisogno di capitale ridotto.
Uno schema simile a quello che ci ha caratterizzati per i primi 50 anni dopo la guerra, quando pochissimi imprenditori di prima generazione – anche nel campo industriale – erano laureati, quando il know-how era quello appreso lavorando come operai o impiegati, quando i risparmi propri insieme a quelli di parenti e amici e a qualche prestito bancario permettevano di costruire il capitale iniziale, quando i cicli di vita di molti prodotti erano più lunghi ed era quindi possibile crescere con gradualità e usare i profitti per alimentare progressivamente il capitale.
Questo mondo non c’è quasi più. Molte delle nuove attività, non solo nell’ICT, richiedono livelli di conoscenza (non necessariamente certificata da una laurea) sensibilmente più elevati. I cicli di vita dei prodotti si sono mediamente molto ridotti e i mercati geo-politici potenziali si sono mediamente ampliati, per cui è spesso necessario disporre di un capitale iniziale maggiore. Le banche commerciali – a valle delle diverse Basilea e con i bilanci spesso devastati dalla crisi – sono molto meno disponibili di un tempo a prestare soldi fidandosi delle persone.
Si è inceppato cioè uno dei meccanismi fondamentali dello sviluppo dell’economia del paese. E, tornando alle parole iniziali, il nostro vero problema non è quello (apparentemente di nicchia) di far nascere e crescere start-up che operino nelle tecnologie avanzate; ma quello molto più generale didisinceppare il meccanismo per far nascere e crescere nuove imprese, in modo da rimettere in moto il processo di normale ricambio (nel futuro possiamo sperare anche di crescita) del nostro sistema di imprese.
Ben sapendo, ma questo non è chiaro a tutti, che molte delle nuove imprese che faremo nascere saranno proprio le start-up “modello California”: perché è nell’ICT, o con l’applicazione innovativa dell’ICT, che sono presenti le maggiori opportunità imprenditoriali.
fonte: ict4executive.it 19 Febbraio 2013