di Davide Giacalone
Tutti a dire che la campagna elettorale è divenuta il festival della promessa a vanvera. Osservazione ovvia, ma non acuta. Perché perde di vista la ragione dell’andazzo. In tutte le democrazie del mondo la campagna elettorale spinge a toni da imbonitori. E’ naturale. Il candidato repubblicano, negli Stati Uniti, ha fatto la campagna per le primarie interpretando una posizione estremista, salvo correggerla nella corsa effettiva alla Casa Bianca, per conquistare l’elettorato intermedio. Vale a dire quegli elettori che, nelle democrazie funzionanti, risultano decisivi. Il nostro guaio è un altro: visto che nessun vincitore governa da solo, visto che chi prende più voti non conquista più potere, va a finire che ciascuno si ripresenta non rispondendo veramente delle promesse non mantenute, annettendo il tradimento non alla propria inaffidabilità, ma al non avere la possibilità di fare quel che aveva promesso. Da qui una degenerazione ulteriore: a ogni campagna si alza il tiro, sapendo che non se ne risponderà.
Sul terreno fiscale, come al solito, Silvio Berlusconi svolge il ruolo della lepre nelle corse dei cani, lanciandosi in avanti e cercando di non farsi raggiungere. Ma i principali competitori gli vanno dietro, latrando per l’ingiusto vantaggio dato da tale condotta. Mario Monti sostiene il contrario di quel che ha fatto, supponendo che possa bastare il dire: prima ho fatto pagare perché c’era il pericolo del default, ma ora sono pronto ad abbassare le tasse, perché i nostri conti sono splendidamente in ordine. Bubbole, ovviamente. Pier Luigi Bersani ha predicato a lungo la patrimoniale, che non solo è sparita, ma ha lasciato spazio a non meglio precisati sgravi fiscali per quanti “hanno già pagato”. Tutti, abbiamo già pagato, compresa la patrimoniale, che si chiama Imu (e non solo, perché anche della tassa sulla spazzatura hanno fatto una patrimoniale). Quanto sia fasullo un tale confronto lo si evince da due cose: a. non mettono i numeri di sgravi e coperture; b. non mettono i numeri e i settori per i tagli alla spesa pubblica. Senza questi secondi resta solo il gargarismo elettoralistico.
Sappiamo tutti benissimo che la vittoria della sinistra (probabile alla Camera) non prelude ad un governo stabile, perché inficiata da debolezze istituzionali e disomogeneità politiche. Sappiamo che tali disomogeneità ci sono anche nella destra, la cui vittoria, del resto, non è all’ordine del giorno. E sappiamo che le alleanze con i centri (plurale) montiani sarà occasione di ulteriori confusioni. Ammesso che restino uniti, quei centri, cosa sulla quale non scommetterei. E’ tale diffusa consapevolezza che fa crescere i voti grillini. O qualcuno pensa che gli italiani siano impazziti e si lascino abbindolare da uno che mitraglia fesserie?
La debolezza culturale delle proposte politiche maggiori, intendendosi per tali quelle che sono effettivamente candidate a vincere e governare, consiste nel non dire una parola sul nodo dal quale non si può prescindere: occorre cambiare la Costituzione, avere un governo governante, dotato di poteri veri, per poi legare a quella riforma il cambiamento del sistema elettorale, talché contenga non un orribile premio alla maggioranza, ma incorpori un vantaggio per la governabilità (come in Francia, in Gran Bretagna e in Germania, che sono sistemi diversissimi, ma tutti coerenti con il quadro istituzionale, al contrario che da noi). Chi avesse lucidità e coraggio per sostenere tale tesi dovrebbe aggiungere: mi candido a fare queste cose e se non ci riesco torno davanti agli elettori, se ci riesco, d’altronde, ci torno comunque, per tenere a battesimo la terza Repubblica. Ed è su questa idea forza che dovrebbe offrire il dialogo agli odierni concorrenti, nella consapevolezza di essere legati da sorte comune. E comunemente condannati dal crescere dei voti di vendetta, oggi coagulati attorno a un comico.
E’ il vuoto sul terreno istituzionale a dovere inquietare. E’ il silenzio sulla Costituzione, continuamente sfregiata, a dovere indignare. Non il vociare piazzista dei vari baracconi. Non sono le promesse a offendere l’intelligenza comune, ma la preventiva rassegnazione a che rimangono tali. Ciò deprime la vita collettiva.
fonte: davidegiacalone.it