di Daniele Marrama*
La crisi ha reso evidente l’insostenibilità per le finanze pubbliche del modello di spesa sociale che si è strutturato nel corso degli anni nel nostro ordinamento, risorse inevitabilmente destinate ad una riduzione. Ma e’ un dato comune che ogni qual volta viene introdotto il tema del contenimento della spesa pubblica a favore di servizi alla persona si verifica una pregiudiziale levata di scudi da parte degli araldi del cosiddetto stato sociale di diritto. I meno informati associano in modo automatico ad una riduzione dei trasferimenti di risorse pubbliche da impiegare in attività di servizio un depauperamento quantitativo e qualitativo del welfare. Questo svisato automatismo deriva dalle modalità con le quali nel corso del XX secolo si è andata strutturando la spesa pubblica.
TRA PASSATO E PRESENTE – Ma l’espressione “solidarietà sociale” indica al contrario la fonte originaria delle attività che oggi compongono il settore. Storicamente, infatti, nel tessuto sociale sono germogliate iniziative originate dal desiderio di singoli ed associati di impegnarsi per migliorare le condizioni di vita dei meno abbienti. Mentre la sensibilità del mondo cattolico ha determinato il sorgere di iniziative gratuite di assistenza, istruzione e di presa in carico di orfani, il pensiero di matrice socialista e comunista ha favorito la nascita e la diffusione di associazioni aventi come fine ultimo la difesa del proletariato. In Italia e non solo, lo stato liberale monoclasse di inizio secolo ha subito intuito la forza politica posseduta dai nuovi corpi intermedi e con arguzia, piuttosto che contrastarla, ha deciso di assorbirla per irreggimentarla. Ne é buon esempio la legge Crispi del 1890 con la quale per portare nella sfera di controllo statale la forza politica dei numerosi corpi intermedi fu decisa l’improvvisa statalizzazione di tutte le istituzioni di assistenza. Con il trascorrere dei decenni, lo stato ha poi avocato a se le attività sorte nel tessuto sociale con l’intento di ricondurre l’erompere della forza dei corpi intermedi sui binari di un processo di controllata cessione di piccole porzioni di sovranità. Se è vero, quindi, che il passaggio dallo stato di diritto a quello sociale di diritto ha rappresentato uno snodo importante per l’ufficializzazione del valore della solidarietà sociale è altrettanto vero che quasi mai a questo passaggio ha corrisposto una moltiplicazione dei servizi. Cio’che è andato, invece, moltiplicandosi è stato l’impiego di risorse provenienti dal gettito erariale. E se questo è considerabile come il male minore accanto ad esso, invece, si sono ben presto evidenziate le negatività connesse all’ampliamento della sfera di influenza politica e dal consolidamento di una mentalità assistenzialista imperniata attorno ad una subordinazione reverenziale.
SCENARI FUTURI – Negli ultimi decenni dello scorso secolo una politica irresponsabile, per formare e consolidare il consenso elettorale, ha poi utilizzato la leva del debito pubblico per mantenere elevata la spesa e la sua capacità di controllo. Ciò non di meno, una volta preso atto del fatto che l’assicurazione di servizi alla persona non deve per forza presupporre un impegno diretto della p.a. forse una via di uscita esiste. Il pubblico dovrebbe avere il “coraggio” di lasciare il campo alla capacità della comunità di far nascere al suo interno iniziative spontanee. A regime, il pubblico dovrebbe limitarsi a regolare e vigilare la qualità dei servizi e, solo per i casi in cui non maturino realtà private in grado di far fronte alle comuni esigenze, ad intervenire in prima persona. Per troppi anni un’interpretazione estrema e faziosa ha indotto a ritenere che l’unica economia fosse quella che persegue il profitto per le risorse impiegate, ma proprio l’economia del Terzo Settore è l’unica ad aver resistito alla crisi. Va da se che un capitalismo temperato dal rilievo della natura sociale e relazionale dell’essere umano, invece, da un lato, permette che la ricchezza prodotta dalle attività for profit venga condivisa con le persone che hanno contribuito a determinarla e, dall’altro, che parte dell’attività economica venga garantita da operatori che non hanno come fine il profitto a fini distributivi ma che reinvestono gli utili. La soluzione che sembra delinearsi passa per il tessuto sociale dei corpi intermedi in un ritorno verso una cittadinanza capace di esprimersi in attività di volontariato puro, in iniziative imprenditoriali no profit ed in una maggior condivisione delle utilità prodotte dal profit. I risultati sarebbero di certo migliori di quelli prodotti dal capitalismo selvaggio e, con ogni probabilità, risulterebbero compatibili con gli aneliti del cuore di ciascuno.
*Presidente Fondazione Banco di Napoli
fonte: Corriere Economia del 14 gennaio 2013