di Evgeny Morozov
Il grande paradosso di Internet, oggi, è che nonostante le aziende in Internet aspirino a mettere ordine in quel che facciamo online e a come lo facciamo, il Web appare più fuori controllo che mai.
Prendiamo ad esempio Facebook: recentemente si è visto che deteneva ancora foto che gli utenti avevano chiesto di cancellare tre anni fa. Oppure Anonymous, che continua a far circolare informazioni private di cittadini incolpevoli per perseguire obiettivi politici di ordine generale. O ancora Path, un popolare social network per la condivisione di foto, che memorizzava segretamente nei suoi server i numeri dei telefoni cellulari contattati dai suoi utenti. Se Anonymous avesse attaccato i server di Path, le rubriche dei suoi due milioni di utenti sarebbero diventate di dominio pubblico.
Il possibile danno riguarderebbe in questo caso non solo la privacy degli utenti di Path, ma anche la loro reputazione. Chissà quanti numeri imbarazzanti vengono salvati nelle rubriche. Analogamente, quando nel 2010 Google lanciò il suo disastroso servizio Google Buzz, rese pubblici i nomi dei contatti email più frequenti dei suoi utenti – un gesto assai poco adatto a salvaguardare la reputazione della gente.
Cosa fare, allora? Una soluzione potrebbe essere quella di rendere il Web un luogo meno anonimo, in modo che sia possibile rintracciare e punire chi si comporta come Anonymous. Un’altra sarebbe quella di considerare inevitabili questi incidenti e cercare di gestire attivamente la propria reputazione online. Un gran numero di start-up sta già pubblicizzando sistemi capaci di sopprimere le informazioni dannose, o almeno di spostarle da pagina 1 a pagina 10 dei risultati di ricerca. Dato che questo può costare migliaia di dollari, è una opzione riservata soprattutto ai ricchi.
Una terza soluzione, più allettante, è quella di promuovere il cosiddetto «diritto a essere dimenticati» – un diritto così ambiguo, che spesso anche i suoi sostenitori non riescono a dire in cosa consista. Nella sua forma più contenuta, «il diritto a essere dimenticati» è una questione di buon senso: gli utenti dovrebbero avere la possibilità di cancellare qualsiasi informazione carichino su servizi online. Nella sua forma più estesa – permettere agli utenti di eliminare le informazioni su se stessi da qualsiasi sito o da motori di ricerca – «il diritto a essere dimenticati» è troppo drastico e poco realistico.
Anche se applicato, «il diritto a essere dimenticati» non potrà far molto per contrastare il prossimo Google Buzz o Path, per non parlare di Anonymous. Potrebbe limitare la diffusione di informazioni esposte inavvertitamente, ma ridurne la quantità non consolerebbe quegli utenti la cui reputazione è danneggiata anche da una sola pubblicazione. A volte basta a danneggiarci che amici, parenti o partner commerciali diano solo una rapida occhiata a notizie compromettenti. «Il diritto a essere dimenticati» potrebbe eliminare queste informazioni da Internet – ma non dalla nostra mente.
E se si trovasse una soluzione più elegante? Potremmo creare un sistema di assicurazione obbligatoria per i danni online! Che cos’è infatti la diffusione accidentale di informazioni riservate, se non un disastro online – un terribile tsunami informatico creato dall’uomo, che può distruggere la reputazione come un vero tsunami distrugge una casa? Se Facebook non elimina una foto che avevamo chiesto di cancellare tre anni fa, o se Google diffonde accidentalmente la nostra rubrica e, soprattutto, se questo ci ha causato un danno dimostrabile (ad esempio un ex fidanzato pazzo ha cominciato a perseguitarci in conseguenza di ciò), dovremmo poter ricevere un risarcimento in denaro. Starebbe poi a noi decidere se usarla per iniziare una nuova vita o per utilizzare i servizi di una di quelle start-up specializzate nel migliorare la nostra reputazione online (o farla sparire). Le somme in gioco non dovrebbero peraltro essere insignificanti. Dal momento che solo una piccola percentuale di utenti subisce dei danni effettivi dalla diffusione di informazioni, se tutti versassero una piccola quota mensile si raccoglierebbero i fondi necessari ad aiutare chi ha problemi.
Questo sistema ha molti vantaggi. Prima di tutto, non interferirebbe con il funzionamento di Internet. Non c’è bisogno di bandire dalla Rete l’anonimato o di creare una sofisticata infrastruttura censoria per poter applicare «il diritto di essere dimenticati». In secondo luogo, darebbe alle vittime dello tsunami informatico una qualche compensazione. Non ci sarebbero più vaghe promesse del tipo «non accadrà mai più», ma chi è danneggiato riceverebbe una somma di denaro. Infine, renderebbe più democratico l’accesso ai servizi che tutelano la nostra reputazione: veder ripristinata la propria reputazione non sarebbe più solo appannaggio dei ricchi che possono pagare migliaia di dollari per questo beneficio. E soprattutto si manterrebbe lo spirito innovativo di Internet. Le società che operano in Internet non avrebbero bisogno di modificare i loro modelli di business per soddisfare le esigenze più stravaganti che discenderebbero dal «diritto di essere dimenticati». Analogamente, gli utenti ordinari, che rischiano di diventare sempre più paranoici riguardo alla loro reputazione, non avrebbero bisogno di cancellare tutti i loro account o di diventare degli eremiti digitali. Anche se Anonymous rivelasse qualcosa di loro, otterrebbero almeno una compensazione economica.
Questa assicurazione sulla reputazione online non è, ovviamente, una panacea – non deve essere intesa come un sostituto della legge e dell’educazione dell’utente di Internet, strumenti principali di tutela dell’interesse pubblico. Le aziende che trattano i dati degli utenti in modo negligente dovrebbero comunque essere multate e sanzionate penalmente. Ma un sistema assicurativo di questo genere offrirebbe un minimo di compensazione a chi di noi si trovasse schiacciato negli angoli più kafkiani di Internet.
Perché renderla obbligatoria? Chi non usa affatto Internet, non dovrebbe essere esentato? Purtroppo non basta non utilizzare Internet per non esserne danneggiati. Una nostra foto imbarazzante potrebbe circolare su Facebook anche se non sappiamo cosa sia Facebook. Analogamente, quando Anonymous attacca le banche dati online di agenzie governative, tutti diventano vittime potenziali, anche chi non ha alcuna capacità digitale.
Naturalmente, come avviene per ogni proposta nuova, ci sono ancora centinaia di dettagli da mettere a punto – ma non è un problema insormontabile. In effetti, alcune compagnie di assicurazione, tra cui colossi come AIG (American International Group), offrono già delle «assicurazioni sulla reputazione» alle aziende loro clienti. Quel che serve ora è renderle accessibili e utili agli individui, sciogliendo alcuni dei nodi principali. Per esempio, misurare o anche definire «un danno» alla propria reputazione online può essere difficile. Tuttavia, la crescente quantificazione del nostro status sociale sul Web in base a chi sono i nostri amici potrebbe presto renderla più facile. È anche importante non creare rischi come quello di dare agli utenti un incentivo a pubblicare foto imbarazzanti di se stessi sulle piattaforme Internet per poter poi chiedere un risarcimento. Garantire che soggetti ad alto rischio, che hanno account attivi su ogni piattaforma Internet, non siano discriminati o sottoposti a tariffe esose da parte degli assicuratori potrebbe essere un altro problema (che si potrebbe però risolvere se il programma di assicurazione fosse gestito dal governo).
Dal punto di vista dell’innovazione, potrebbe essere interesse della società far provare in fase iniziale il maggior numero di nuovi servizi Internet al maggior numero possibile di utenti. Fornire loro un’assicurazione online più completa possibile sarebbe quindi un utile obiettivo di politica sociale: incrementare il welfare, dopo tutto, è lo scopo delle assicurazioni. Non esplorare quello che i sistemi assicurativi ci possono offrire, adottando slogan vaghi e populisti come «il diritto a essere dimenticati», è un modo sicuro per introdurre una politica malaccorta nella gestione di Internet. Purtroppo non c’è ancora un’assicurazione che ci tuteli da una politica stupida.
(Traduzione di Maria Sepa)
fonte: Corriere della Sera, 16 febbraio 2010