TRA EFFICIENZA E SOLIDARIETA’
Nuove regole di politica economica
Un programma complessivo per un nuovo modo di gestire l’economia. Più discipline e regole, più mercato, no a consociativismo e solidarietà assistenziale.
di Mario Monti
In un periodo di così intenso rivolgimento politico e civile, colpisce l’assenza di un dibattito su come dovrà essere organizzata e gestita l’economia dei prossimi anni. Sembra quasi che non venga percepita la necessità di una svolta radicale rispetto al tradizionale metodo di governo dell’economia seguito in Italia. Un metodo che ha dato alterni risultati nel corso del tempo, ma che è comunque figlio di una realtà politica e istituzionale in via di superamento. Un metodo che non appare in grado di promuovere la crescita e l’occupazione in Italia, di fronte all’agilità maggiore che hanno già oggi – e che stanno cercando di accrescere – le economie di diversi Paesi europei, del Nord America, dell’Asia. Se respingiamo l’idea di voler competere con quei Paesi, perché non siamo disposti a inseguire troppo l’efficienza a scapito della solidarietà, senza volerlo prepariamo l’Italia a un futuro di disoccupazione. Se invece abbandoniamo gli obiettivi di solidarietà, rinunciamo a valori che (benché spesso non realizzati in concreto) sono parte importante del nostro patrimonio culturale. Ma non occorre abbandonare quei valori. Basta affidarne l’attuazione a strumenti che non ostacolino troppo l’efficienza del sistema produttivo. In particolare, al mercato e al sistema dei prezzi dobbiamo chiedere l’efficienza; per la ridistribuzione e la solidarietà va usato il sistema fiscale. “Confondere meccanismi diversi, vuol dire fracassare ambedue” (Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1949). Nell’intento di stimolare riflessioni – e senza alcuna pretesa di completezza – ho provato a elencare (vedi tabella a pagina 2) quelli che a mio parere dovrebbero essere i punti principali di una svolta radicale. Non si tratta certo di un programma specifico di politica economica, ma di uno schema di ragionamento ad esso ben preliminare. Già così molti elementi dello schema non saranno condivisi da tutti. Ma sarebbe utile, per noi cittadini, che su queste cose – non solo su quali alleanze ricercare – le forze politiche prendessero posizione. A livello macroeconomico, la disciplina di bilancio richiede che venga eliminato il disavanzo corrente, salvo oscillazioni legate al ciclo economico, e che lo Stato si indebiti solo a fronte di investimenti. La disciplina monetaria comporta che alla Banca d’Italia vengano attribuiti sia la piena autonomia sulla politica monetaria sia l’obiettivo specifico della stabilità monetaria. E’ questa la tendenza negli altri Paesi, utile ad evitare che – come è avvenuto in passato in Italia – la Banca centrale assuma un ruolo ausiliario rispetto ad altri obiettivi e finisca per deresponsabilizzare governo e Parlamento sulla finanza pubblica. Legato a una piena responsabilizzazione dei pubblici poteri è anche il superamento del consociativismo. I sindacati dei lavoratori (confederali o autonomi) e degli imprenditori (industriali, bancari, eccetera) potranno essere ascoltati, ma non devono partecipare alla formulazione della politica di bilancio, fiscale, finanziaria, eccetera, che è di competenza esclusiva dei pubblici poteri. Dovrebbe invece venire incoraggiata la compartecipazione dei sindacati a livello d’impresa: compartecipazione alla gestione (modello tedesco) e ai risultati. Pubblici poteri meno condizionati dalle parti sociali, meno “protetti” dalla Banca centrale (e, si dovrebbe aggiungere, maggiormente in grado di assumere decisioni responsabili in un sistema istituzionale riformato) avranno più incentivo, e più facilità, ad operare per il superamento dell’improduttività. Cioè degli impieghi improduttivi del lavoro (nel solo settore pubblico: 200 300.000 secondo il ministro per la Funzione pubblica; 500.000 secondo altre stime) e del capitale (solo per il disavanzo pubblico corrente, 1.4 del risparmio privato ogni anno). I mercati in generale devono essere più regolati e, al tempo stesso, più liberi: più intervento pubblico a tutela della concorrenza, meno interferenza pubblica nel fissare prezzi e quantità. Un’economia resa più agile dalla politica economica radicale che stiamo individuando tenderà a una crescita maggiore. Ma perché questa dia pieni frutti in termini di maggiore occupazione, è necessario che il mercato del lavoro sia reso ancora molto più flessibile, con minori vincoli su assunzioni e licenziamenti, più spazio alla contrattazione decentrata e individuale. In caso contrario, la tutela rigida degli occupati andrà sempre più a scapito dei disoccupati e dei giovani che non trovano lavoro. Insieme con i minori vincoli nel mercato del lavoro, per le imprese dovrebbe esserci una drastica riduzione dei sussidi da parte dello Stato e un minor ricorso ai salvataggi a carico, in varie forme, della collettività. Mercati più liberi di operare (ma, ricordiamo, in un quadro di maggiore tutela pubblica della concorrenza) e politiche di bilancio rigorose non comportano affatto la rinuncia alla difesa dei più deboli. Ci può, e a mio parere ci deve, essere solidarietà, ma vera. Cioè quella basata, come ho cercato di mostrare in questa sede il 30 maggio scorso, non sui prezzi politici o sulla spesa sociale in disavanzo (ambedue limitano l’efficienza e comprimono la crescita economica), ma sulla spesa sociale coperta con tasse. (Proprio per questo, bisognerebbe pensarci due volte prima di prospettare ai contribuenti un futuro con una pressione fiscale molto minore, o con una progressività molto ridotta). Elemento di fondo – e, per così dire, di chiusura logica – della svolta radicale è quello di un maggior rispetto dei nostri figli. A questo dovere veniamo gravemente meno oggi, soprattutto perché ci apprestiamo a consegnare loro un’eredità costituita da un attivo impoverito (spendiamo, ad esempio, in stipendi su posti di lavoro improduttivi invece di investire nella tutela dell’ambiente) e da un passivo impressionante (il debito costituito dal cumulo dei disavanzi correnti, a fronte del quale sta in realtà il nulla). Scusandomi per l’esposizione lunga, e tuttavia sommaria, concludo con due osservazioni e una domanda. Che quella qui prospettata si configuri come una svolta radicale – contraria a una visione cristallizzata e rituale dei ruoli del governo e delle parti sociali – mi pare inutile illustrarlo oltre. Che questa svolta sia possibile e quando, non so: ma credo che nell’Italia del prossimo futuro essa potrebbe risultare più fattibile che nell’Italia del passato. Soprattutto se rifletteremo su quali conseguenze avrebbe, a lungo andare, non compiere questa svolta. La domanda, imbarazzante. E’ una svolta di “destra” o di “sinistra”? Più imbarazzante ancora: è “progressista” o no? Sono quesiti ai quali non oso rispondere. Anche perché li considero piuttosto irrilevanti. Mi limiterò a dire che vedo elementi solitamente considerati di “destra” (ad esempio: obiettivo della stabilità monetaria; meno interferenza pubblica su prezzi e quantità; più flessibilità nel mercato del lavoro) accanto a elementi solitamente considerati di “sinistra” (ad esempio: più incisiva tutela antitrust; meno sussidi alle imprese; molta attenzione alla solidarietà sociale). Elementi, gli uni e gli altri, che mi sembrano perfettamente compatibili. Anzi, sono componenti necessarie di una visione moderna dell’economia di mercato. Visione che dovremmo sforzarci di sostituire presto a quella dell’economia corporativa, la quale rischia di sopravvivere non solo al fascismo ma anche alla Prima Repubblica.
fonte: – Corriere della Sera – 3 settembre 1993