di Luigino Bruni
In questi giorni si susseguono segnali di allarme per gli attacchi speculativi, alternati ad altri di distensione e di ottimismo. In realtà, dobbiamo prendere coscienza che la situazione è grave, e dobbiamo attrezzarci come Paese e come Europa per affrontare una fase che potrebbe rilevarsi non meno difficile e lunga di quella dell’autunno del 2009. Infatti, la crisi che stiamo vivendo in questi giorni è molto più di un fenomeno di contagio (delle crisi greca e/o portoghese): è una crisi di fragilità strutturale dell’Italia e dell’Europa. Il malato è grave: non si tratta ancora di una malattia mortale, ma neanche di una semplice influenza stagionale: è un secondo mini-infarto che se non produce un cambiamento degli stili di vita può portare a conseguenze fatali. Nell’intervallo tra le due crisi il “paziente Italia” ha continuato a comportarsi di fatto come prima, tranne per qualche passeggiatina pomeridiana o alcune pillole, senza aver però dato un segnale forte di inversione di tendenza.
Sono almeno tre gli elementi per proporre una diagnosi, e per proporre una possibile terapia. Il primo elemento per una corretta diagnosi ha a che fare con la demografia. Non capiremo mai bene che cosa sta avvenendo se non partiamo da un dato strutturale e di lungo periodo: l’Italia, come e più degli altri Paesi europei, negli ultimi anni ha radicalmente abbassato il rapporto tra la popolazione attiva e quella in pensione, parallelamente ad un forte aumento dell’aspettativa di vita. Tutto l’impianto dello Stato sociale si fondava su un’attesa di vita molto più bassa (e su più giovani che lavoravano), che consentiva alla generazione giovane di sostenere l’onere delle pensioni. Inoltre, la famiglia, che è stata il vero centro del nostro Stato sociale (molto più dello Stato o del mercato), non riesce più a svolgere le sue funzioni di cura e accudimento. Se allora non facciamo presto non solo una riforma delle pensioni ma un nuovo patto intergenerazionale il debito pubblico non potrà essere ridotto.
Il debito pubblico è, infatti, il secondo elemento della diagnosi: la speculazione colpisce l’Italia perché l’enorme debito pubblico rende indispensabile la sottoscrizione periodica dei titoli di stato, pena il default. Da qui la richiesta, in momenti di fragilità anche della politica, di rendimenti sempre crescenti per i nostri titoli. E’ il debito pubblico la vera spada di Damocle della crisi di questi giorni.
Il terzo elemento riguarda l’Europa, cioè l’assenza di una realtà politica dietro l’euro. Il progetto dei padri fondatori dell’Europa era soprattutto un progetto politico. La storia ci dice che una moneta è forte quando è sorretta da e esprime un potere politico: le incertezze nella gestione della crisi greca è un segnale importante, poiché dice che oltre agli interessi economici in questa Europa dell’euro c’è troppo poco: le forze dei mercati finanziari lo sanno, e colpiscono le fiancate più fragili di questa compagine. Senza un nuovo patto politico, una costituzione europea e istituzioni forti (e agili: occorre ridurre anche i costi della burocrazia europea), l’euro non reggerà a lungo.
La terapia che oggi tutti propongono è il rilancio della crescita economica. Va però ricordato che l’insufficiente crescita economica è anche una conseguenza dei primi due elementi, cioè di un Paese invecchiato e indebitato che non trova le risorse per crescere. La crescita economica richiede molti ingredienti, tutti co-essenziali: investimenti pubblici (soprattutto in istruzione e ricerca), creatività, innovazione e, soprattutto, entusiasmo e passioni nei cittadini. Oggi in Italia mancano certamente risorse per gli investimenti pubblici, ma manca ancor di più l’entusiasmo e il desiderio di vita. Per capire che cosa sia questo entusiasmo, è sufficiente fare un giro in Asia, in Medioriente o in Africa: nel mio ultimo viaggio in Kenya più della miseria materiale, mi ha colpito vedere giovani studiare la sera ammucchiati sotto i lampioni delle strade: è questa fame di vita e di futuro che domani può sconfiggere la fame di cibo e dar vita a sviluppo e benessere. Se oggi l’Italia e l’Europa non ritrovano questo entusiasmo, nessuna finanziaria potrà rilanciare la crescita; anche perché i nostri politici e l’opinione pubblica sistematicamente dimenticano la più grande lezione delle scienze sociali del Novecento: la crescita e lo sviluppo di un Paese non dipendono principalmente dall’azione dei governi ma dai comportamenti quotidiani di milioni di cittadini, ciascuno dei quali possiede, e lui solo, quel frammento di informazione e di conoscenza rilevanti per le azioni sociali ed economiche. Certo, tra questi agenti economici c’è anche il governo e ci sono le istituzioni (che possono e debbono fare la propria parte co-essenziale), ma hanno molto meno potere di quanto si e ci raccontano ogni giorno (anche per giustificare la loro presenza e i relativi costi).
La soluzione alla crisi economica si trova fuori della sfera economica: si trova nella vita civile, nei desideri e nelle passioni della gente, che sono i pozzi che alimentano anche la vita economica. Non si va a lavorare tutte le mattine per ridurre il debito pubblico, ma per realizzare dei progetti, dei sogni. Siamo anche capaci di fare grandi sacrifici solo se dietro ad essi intravvediamo un progetto collettivo grande capace di muovere cuore e azioni, di riaccendere l’entusiasmo. Lo abbiamo saputo fare in tanti momenti del passato, anche recente: perché non ora? Occorre però che ognuno di noi usi bene quel brano di conoscenza e di potere sulla realtà di cui dispone, traffichi bene i suoi talenti, si impegni di più e meglio. Ma perché questo gioco funzioni c’è bisogno di riti e di liturgie pubbliche, della forza dei simboli, dell’arte, della bellezza, di gesti solenni e collettivi. In particolare sono convinto che oggi c’è un estremo bisogno di una sorta di giubileo, nel significato biblico del termine: una stagione di perdono reciproco, di riconciliazione e di pace, per dimenticare le cattiverie e gli avvelenamenti reciproci di cui siamo stati capaci in questi venti anni sia nella classe politica che nel Paese, e guardare avanti assieme. Oggi l’Italia è in uno stato sociale molto simile alla “guerra di tutti contro tutti” di cui parlava Hobbes. Possiamo non uscirne, e continuare così il declino civile ed economico; possiamo uscirne creando un Leviatano, il coccodrillo mostruoso che fa anche parte della storia e del DNA di noi italiani. Ma possiamo uscire da questa trappola di povertà sociale ed economica rilanciando una nuova stagione di virtù civili e un nuovo patto, il solo terreno che ha generato e genera creatività, entusiasmo e voglia di vivere, da cui fiorirà anche la crescita economica.
fonte: “Avvenire” del 24 luglio 2011