di Flavio Felice*
In un articolo pubblicato su “Il Riformista” del 25 maggio 2011, Luciano Pellicani replica ad un articolo di Giuseppe Bedeschi che recensiva il suo libro: “Dalla Città sacra alla città secolare” (Rubbettino, 2011). Pellicani contesta l’interpretazione di Bedeschi, in forza della quale: “La storia ci dice che la prima grande teoria, espressa nel mondo moderno, dei diritti inviolabili e imprescrittibili della persona, è stata elaborata da un pensatore profondamente cristiano, John Locke”, e, nel contempo, ribadisce la sua tesi che liberalismo (come teoria delle istituzioni politiche) e cristianesimo sarebbero inconciliabili, concludendo che il riferimento alle radici cristiane del costituzionalismo americano sarebbe il frutto di un “grande fraintendimento”. È inutile dire che gli argomenti utilizzati da Pellicani sono forti e denotano una cultura e una conoscenza invidiabili, sebbene rilevino anche una mirata selezione delle fonti.
Altre fonti, non meno autorevoli, mostrano come sia impossibile spiegare la genesi e lo sviluppo della teoria politica liberale e della nazione americana al di fuori della tradizione cristiana, riducendo quella vicenda costituzionale al trionfo di un individualismo e di un volontarismo interpretati in senso ateistico.
Con particolare riferimento alla vicenda storica americana, è stato il gesuita e padre conciliare Murray a sostenere che, per un’inspiegabile ironia della storia, la tradizionale dottrina cattolica del diritto naturale è andata via via decadendo nelle nazioni europee, proprio mentre essa assumeva particolare vigore nella neonata Repubblica d’oltre Atlantico. È questa la regione per cui, anche per Tocqueville, la partecipazione dei cattolici all’esperimento americano è stata sin da subito ampia, libera e senza riserve. I contenuti di quell’esperimento, tanto sotto il profilo etico, quanto sotto il profilo dei principi politici, affondavano le proprie radici nella dottrina del diritto naturale: “we hold these truths”.
Di fronte ad interpretazioni così differenti, autorevoli e legittime di uno stesso fenomeno, invito Pellicani a porsi una domanda: in che modo secondo lui gli americani della prima generazione, quella dei Padri fondatori, interpretarono le proposizioni implicite ed esplicite presenti nella Dichiarazione d’indipendenza? Si leggano, ad esempio, i discorsi di George Washington, le lettere scritte da John Adams, Noah Webster, Samuel Adams e tantissimi altri, sui principi fondamentali sui quali poggia la Nazione. Si leggano, inoltre, la Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia, le Costituzioni dei nuovi Commonwealths e degli Stati di Pennsylvania, Massachusetts, New Hampshire e altri ancora.
La lettura di questi testi mostra come, su molti temi, ritroviamo la tradizione biblica, gli insegnamenti degli antichi greci e romani sul carattere e sulla virtù, nonché la visione alto-medioevale della libertà e della coscienza, come elementi che affondano le proprie radici nella nozione tutta cristiana di persona umana.
Eh già! La persona umana. Pellicani giunge persino a negare che al centro della tradizione cristiana ci sia la nozione di “persona”; basti dire che “Il Compendio” di dottrina sociale della Chiesa lo innalza a principio primo. Credo che la ragione del fraintendimento – questo si di Pellicani – risieda tutto qui. Secondo la tradizione del liberalismo di ispirazione cattolica: Rosmini, Manzoni, Sturzo e altri, richiamata di recente da Benedetto XVI nella lettera inviata a Giorgio Napolitano il 17 marzo 2011, il liberalismo è tale in quanto elegge la persona come fine della vita associata. Si tratta di uno straordinario punto di incontro tra il liberalismo classico e la tradizione liberale di matrice cattolica. Un punto d’incontro sintetizzato dal seguente brano dell’economista tedesco Wilhelm Röpke: “il liberalismo non è […] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale”. Che poi talvolta i figli e nipoti non siano riconoscenti è tutto un altro discorso.
*Adjunct Fellow American Enterprise Institute – Washington DC
fonte: “Avvenire”, 8 giugno 2011