di Gerald P. O’Driscoll, Jr.*
Una politica di riduzione dei tassi d’interesse sarebbe la risposta da manuale delle autorità monetarie alle situazioni di debolezza dell’economia causate da una domanda aggregata insufficiente. Per giustificare tale strategia, di solito si citano i diversi modi in cui la moneta può influenzare l’attività economica, non da ultimo stimolando gli investimenti, disincentivando il risparmio, assecondando le spese destinate ai consumi e mettendo gli individui in condizione di alleggerire l’onere dei propri debiti per il tramite di un rifinanziamento. Per quanto tutti questi effetti siano plausibili dal punto di vista teorico, la risposta da manuale non è quella giusta – nella situazione attuale.
In primo luogo, la crisi e la debolezza dell’economia americana non sono state causate dall’inadeguatezza della domanda effettiva – come nella teoria di Keynes – bensì dal ciclo (come spiegato da Hayek) di espansione e crollo del valore degli asset. In secondo luogo, la tesi da manuale a favore di tassi d’interesse ridotti ritiene che tale politica presenti solo benefici e non comporti alcun costo. In realtà una politica economica o monetaria che non presenti costi non può esistere.
Il ciclo di espansione e crollo dei valori immobiliari è stato un classico esempio di bolla speculativa degli asset, analoga ai numerosi casi che si sono verificati nel Diciottesimo e nel Diciannovesimo secolo. I “soldi facili” che operavano per il tramite di un credito estremamente poco costoso hanno fatto apparire gli investimenti di lungo periodo più allettanti di quanto non sarebbe avvenuto in condizioni di tassi d’interesse elevati.
Nella maggior parte dei casi, un’espansione degli investimenti va ad alimentare settori economici altrimenti contraddistinti da valori fondamentali sani. Quando inizia ad affluire il credito a buon mercato, tuttavia, i fondamentali vengono gettati alle ortiche e la situazione diventa (per usare un’espressione all’antica) una mania. L’insostenibile non può essere sostenuto e inevitabilmente l’espansione si chiude con una crisi.
In uno scenario siffatto il crollo della domanda è una conseguenza, piuttosto che la causa del crollo dell’attività economica. Qualsiasi politica mirante a venire alle prese con una crisi deve capire bene quali siano le cause e quali gli effetti.
Quando i prezzi delle case hanno raggiunto il picco per poi crollare, vi sono state ripercussioni nell’intero sistema finanziario, che hanno poi interessato l’economia più in generale. I titoli garantiti da ipoteche (mortgage-related securities) hanno perso di credibilità, assestando un grave colpo al bilancio degli istituti finanziari che li avevano acquistati. Una volta che questo fenomeno si è fatto evidente, il prezzo dei titoli emessi da questi stessi istituti (prevalentemente, ma non esclusivamente finanziari) è crollato a sua volta. Il credito si è essiccato e l’economia è entrata in crisi, con la conseguenza che il mercato azionario è andato a picco.
Il panico finanziario e la grande recessione che ne è conseguita hanno rappresentato un classico esempio di recessione “da crisi di bilancio”. Mano a mano che lo stato patrimoniale di imprese e società perdeva valore, la domanda è crollata. Si è prodotta anche una crisi di liquidità, essenzialmente imperniata sul fallimento di Lehman Brothers, ma la “forza motrice” della crisi è stato il crollo dei bilanci societari, la precarietà del valore del loro capitale e, in molti casi, l’insolvenza.
Altri fattori che hanno avuto significative ripercussioni sono la riduzione del valore delle case, dei portafogli azionari degli investitori e dei conti pensionistici integrativi, insieme all’incertezza relativa ai piani pensionistici più in generale. La soluzione consiste nel ripristinare la solidità dei bilanci. Per le società finanziarie, questo significa trovare capitali. Per consumatori e imprese, la via da seguire consiste nel risparmiare una percentuale maggiore di un reddito diminuito rispetto al passato.
Ciò nonostante, le politiche pubbliche hanno cercato quasi esclusivamente di stimolare la spesa, senza darsi troppo pensiero delle cause che hanno fatto sì che la spesa – e il consumo in particolare – si sia ridotta. Finché lo stato patrimoniale di imprese e famiglie non riacquisterà la dovuta solidità, l’aumento della spesa non potrà essere sostenuto.
La spesa occasionale e le agevolazioni fiscali sono sempre accorgimenti di dubbio valore, particolarmente in una situazione come l’attuale, in cui gli attori economici sono orientati a risparmiare di più e spendere di meno. I crediti fiscali una tantum a favore delle famiglie, ad esempio, non hanno fatto altro che anticipare nel tempo le vendite future. Com’era prevedibile, questi espedienti fiscali non hanno fatto aumentare i consumi futuri, bensì li hanno depressi.
A essere scarsa non è la liquidità ma il risparmio. La Federal Reserve può fornire la prima, ma non il secondo. La politica fiscale e quella monetaria devono mutare indirizzo: la Fed ha fatto il grosso del lavoro e ha risposto più che adeguatamente ai problemi di liquidità. A questo punto non ha più molto da offrire.
La decisione della Federal Reserve di orientarsi verso una politica di espansione monetaria (quantitative easing) simile a quella seguita dal Giappone rappresenta un passo falso della banca centrale americana. Si aggiunga che il fatto che il valore dei tassi d’interesse abbia raggiunto i minimi storici (a questo proposito la Banca dei Regolamenti Internazionali, ossia la “banca delle banche centrali”, ha lanciato un allarme nella sua relazione annuale per il 2009-2010) avrà inevitabilmente l’effetto di distorcere l’attività economica, esattamente com’è avvenuto durante il boom della casa. Gonfiando artificialmente il prezzo degli asset, il ridotto livello dei tassi d’interesse rallenterà il processo di consolidamento dello stato patrimoniale di famiglie e imprese, oltre a penalizzare il risparmio, con l’effetto di prolungare ulteriormente il risanamento dei bilanci.
In ambito fiscale, le scelte politiche dovrebbero essere orientate verso gli investimenti produttivi (da distinguere da una ripresa della speculazione finanziaria), abbandonando l’obiettivo di stimolare il consumo. Ciò significa astenersi dall’imporre aumenti delle imposte sul reddito e nuovi e costosi mandati di spesa a carico di famiglie e imprese. In particolare, è il caso di rinnovare i tagli alle imposte attuati dall’Amministrazione Bush. A dispetto delle acrobazie verbali di questa Amministrazione, la “scadenza” dei tagli comporterebbe un sostanzioso aumento dell’aliquota marginale delle imposte in un periodo di debolezza economica. Ciò ostacolerebbe ulteriormente il risparmio e l’accumulazione di capitale, disincentivando la crescita delle imprese e l’assunzione di nuovi lavoratori. Il Segretario del Tesoro Tim Geithner si sta riproponendo di ripetere l’errore di Herbert Hoover, che nel 1932 convinse il Congresso ad aumentare le tasse.
I mercati sanno sopportare molti colpi, ma la ripresa può essere ostacolata da politiche inadeguate. Al momento attuale, purtroppo, la nostra politica fiscale e la nostra politica monetaria sono sulla strada sbagliata.
* Gerald O’Driscoll è senior fellow presso il Cato Institute. Precedentemente è stato Vice-presidente della Federal Reserve Bank di Dallas e successivamente Vice-presidente di Citigroup. Con Mario J. Rizzo ha pubblicato The Economics of Time and Ignorance (Routledge, 1996).
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul Wall Street Journal del 16 agosto 2010. Ringraziamo MF/Milano Finanza per la gentile concessione alla traduzione e pubblicazione
fonte: IBL