di Carlo Lottieri
Può anche darsi, come sostiene Gianfranco Fini, che la Padania non esista e che pure essa rientri in quel gruppo di entità che il principe di Metternich definiva semplici «espressioni geografiche». Ma se il dibattito sul federalismo si fermasse a tale livello e pretendesse di basare le proprie linee-guida unicamente sulla storia, sarebbe molto alto il rischio di perdere tempo. La questione cruciale è infatti un’altra e ci chiede di comprendere quale possa essere il migliore assetto istituzionale per aiutare il Paese nel suo insieme a reggere di fronte alla crisi e ad offrire un futuro alle giovani generazioni.
Mentre il federalismo “in costruzione”- vero o falso che sia – è basato solo per ragioni di Realpolitik sulle attuali venti regioni (e perfino sulla difesa delle province), può essere interessante confrontare questo schema con quello di un’Italia macroregionale. Tanto più che proprio dalla Germania giungono ipotesi di accorpamenti dei Länder.
In Italia l’ipotesi di dar vita a tre macroregioni (Nord, Centro e Sud) non è nuova, dato che era al centro della proposta di Gianfranco Miglio, quando fu senatore della Lega e anche in seguito. Tale progetto può trovare varie giustificazioni: a partire dallo squilibrato rapporto che esiste tra mícro-regioni come il Molise o la Valle d’Aosta ed realtà di bel altre dimensioni come la Lombardia e la Campania.
In Miglio, però, l’idea centrale era strategica. Egli era infatti persuaso che soltanto creando contro-poteri basati su vaste realtà economiche e territoriali sarebbe stato possibile contrastare lo Stato centrale e avviare un autentico processo di federalizzazione. Lo studioso di Como, che dalla sua abitazione amava gettare il suo sguardo sul territorio svizzero, era perfettamente consapevole che una vera federazione ha solo da guadagnare da giurisdizioni di piccole dimensioni e, di conseguenza, dall’alta concorrenza istituzionale che ne deriva. Se le entità federate sono numerose e di modesta entità, per le imprese e per le famiglie è molto facile sottrarsi a governanti esosi e impiccioni, e questo favorisce in linea di massima il prevalere di una buona amministrazione. Ma Miglio puntò sull’idea di tre realtà corpose che corrispondessero alle tre aree in cui effettivamente si divide il Paese con l’obiettivo di creare blocchi sociali ed elettorali assai corposi. Tanto più che si può benissimo compensare questo federalismo a pochissimi attori (le tre macro-regioni, più eventualmente le due isole) con un sistema istituzionale e fiscale che conferisca il massimo di libertà, responsabilità e autonomia a tutti i comuni.
Un progetto autenticamente federale dovrebbe rovesciare la piramide attuale e, in particolare, affidare ai municipi la massima libertà di tassare: decidendo l’entità del prelievo e, se fosse possibile, anche le stesse modalità. Ovviamente bisognerebbe stabilire che ai comuni resti solo una quota percentuale delle risorse raccolte, poiché il resto dovrebbe essere destinato alle macro-regioni e allo Stato centrale. Una riforma di questo tipo creerebbe il massimo di responsabilizzazione a livello locale, poiché sarebbero appunto i sindaci a mettere le mani nelle tasche della gente (e quindi essi potrebbero sentire il fiato sul collo dei cittadini). Ne deriverebbe, in modo molto naturale, un vero processo di riduzione del prelievo tributario e una corsa tra comuni a chi riesce a tassare meno e a dare, al contempo, i servizi migliori. Per giunta, con la costituzione di ampie macro-regioni lo Stato italiano – per la prima volta nella sua storia – dovrebbe confrontarsi con realtà forti, articolate, rappresentative di decine di milioni di persone. La Repubblica attuale, fossilizzata sulla burocrazia romana e su ministeri tanto onerosi quanto inefficienti, verrebbe costantemente incalzata da organismi legittimati a rappresentare aree tanto vaste quanto sostanzialmente coerenti. È chiaro che in questo quadro la dialettica Nord – Sud, che comunque è già nelle cose stesse, verrebbe ancor più alla luce, ma anche il Centro finirebbe per avere un ruolo peculiare, proprio in funzione mediatrice ed equilibratrice. Chi avesse il coraggio di esaltare il ruolo dei mille campanili e – al tempo stesso – di riconoscere come dato essenziale con cui fare i conti quella “disunità d’Italia” che le tre macro-regioni in qualche modo certificherebbero farebbe un bel servizio al Paese. Soprattutto, come si è detto, se si avesse il coraggio di obbligare la periferia a finanziarsi da sé, facendo sì che siano i primi cittadini a chiedere direttamente alla loro popolazione le risorse di cui hanno bisogno. Purtroppo ci si sta muovendo in tutt’altra direzione. Quanti invocano il federalismo puntano in genere a vedere affluire più risorse alle regioni, senza però che le stesse abbiano un vero ruolo nella determinazione e nella raccolta delle imposte. Soprattutto nessuno sembra aver capito l’esigenza di indirizzarsi verso quella competizione fiscale che invece è indispensabile se si vogliono avere amministrazioni meno costose e meglio gestite. Non è comunque un caso che in Germania si pensi a ridurre il numero degli Stati federati e che in Italia da vent’anni si provi, con fatica, a costruire una struttura federale. Questi due Paesi sono accomunati dal fatto di aver costruito la loro unità molto tardi, solo intorno a metà Ottocento, e proprio per questo continuano a essere caratterizzati da forti differenze interne. Ma proprio per gestire al meglio questa complessità bisognerebbe avere il coraggio di optare per un federalismo vero. In definitiva, anche quanto sta succedendo a Pomigliano d’Arco è emblematico, poiché ci parla di un mondo industriale che è pronto a investire nel Mezzogiorno solo se si prenderà atto che Salerno non è Treviso, che Caltanissetta non è Varese. L’Italia è profondamente divisa e quindi esige soluzioni all’altezza della situazione. Non ammetterlo è da irresponsabili.
fonte: IBL