di Aldo Maria Valli
In questi giorni è difficile sottrarsi all’impressione che le notizie sui casi di pedofilia tra sacerdoti, riesumate dal passato e rilanciate con grande rilievo su entrambe le sponde dell’Atlantico, stiano svolazzando minacciosamente per calare su una vittima scelta fin dall’inizio come obiettivo di tutta l’operazione, ovvero Benedetto XVI. La conferma che la manovra sia di questo tipo è arrivata dal New York Times, sempre pronto a sparare contro la Chiesa cattolica e il papa. Affermare che nel 1996 l’allora responsabile della congregazione per la dottrina della fede e attuale pontefice, Joseph Ratzinger, con la collaborazione dell’allora segretario della congregazione e attuale segretario di stato vaticano cardinale Tarcisio Bertone, avrebbe insabbiato il caso di padre Lawrence Murphy è una falsità.
Lo dicono i fatti, già ampiamente chiariti. Siamo nella metà degli anni Settanta del secolo scorso.
Padre Murphy è accusato di abusi, commessi dal 1950 al 1975, su numerosi alunni di una scuola per minorenni sordi. Le autorità civili, subito informate, non trovano prove a carico del prete, ma l’arcidiocesi di Milwaukee continua a indagare e, nonostante l’archiviazione delle denunce, decide di limitare l’azione di Murphy.
Passano vent’anni e l’arcidiocesi, in un clima reso infuocato da rinnovate polemiche su casi di preti pedofili, decide di segnalare la vicenda Murphy alla congregazione per la dottrina della fede, il cui titolare all’epoca è appunto Ratzinger.
Si vuole sapere come trattare il caso dal punto di vista canonico e in particolare chiarire se la competenza in materia è diocesana o della congregazione.
Dalla documentazione risulta che la richiesta non è mai arrivata sul tavolo del cardinale Ratzinger.
Tuttavia la congregazione si muove.
Sebbene il sacerdote, isolato e malato da tempo, sia prossimo alla morte e negli ultimi due decenni non abbia più commesso abusi, Roma raccomanda all’arcivescovo di Milwaukee che le misure restrittive nei confronti di Murphy siano intensificate e che da parte sua ci sia una piena ammissione di responsabilità.
È proprio ciò che avviene. Poi, quattro mesi dopo, Murphy muore.
Cercare di trascinare nel fango Joseph Ratzinger per questa vicenda è quindi disonesto. Come lo è sostenere che il problema sia nel silenzio raccomandato dal Crimen sollicitationis, il testo riservato del 1922 (e rivisto quarant’anni dopo) che stabiliva la procedura da seguire nei casi in cui il sacerdote è accusato di utilizzare la confessione per fare avances sessuali. In realtà, come il Vaticano ha ribadito più volte in questi giorni, il documento non proibisce affatto la denuncia degli abusi alle autorità civili.
A proposito di Lawrence Murphy, c’è poi da segnalare che l’arcivescovo di Milwaukee che si occupò del caso fu quel Rembert Gorge Weakland, benedettino, che nel 2002 fu costretto alle dimissioni dopo che venne alla luce una sua relazione di vent’anni prima con un seminarista, storia che lo stesso Weakland cercò di mettere a tacere con 450 mila dollari prelevati dalla cassa della diocesi.
Ora occorre dire che Weakland non ha mai nascosto di essere un vescovo ultraprogressista, in rotta di collisione con la linea di Giovanni Paolo II e di Joseph Ratzinger in materia di sessualità.
Sicché non sono pochi a sostenere che l’ex arcivescovo avrebbe ora più di un motivo per cercare di screditare Benedetto XVI e di rivalutare se stesso puntando il dito sulla linea del Vaticano.
A questo punto la Santa Sede dovrebbe forse attrezzarsi per ribadire alcuni punti fermi dell’intera questione (per esempio richiamando i contenuti salienti dell’istruzione Crimen sollicitationis e della lettera De delicti gravioribus del 2001), anziché limitarsi a rispondere, spesso con affanno, ogni volta che qualche organo di stampa la trascina nella polemica. Anche perché le accuse, secondo le regole del giornalismo sensazionalistico, fanno sempre molto rumore, mentre le risposte, necessariamente articolate, non ricevono lo stesso rilievo.
Un cardinale di curia che l’ha potuto avvicinare riferisce che Benedetto XVI è abbattuto. Le continue polemiche lo stanno logorando. Ma il tiro al bersaglio non è finito. In Vaticano sanno che il prossimo mattone inserito nell’edificio delle accuse si chiama Italia. In molte diocesi ci sono casi che si prestano e che stanno per essere riportati alla luce anche se avvenuti molti anni fa.
fonte: europaquotidiano.it