A Verona, la Glaxo impiega tra gli altri 550 ricercatori. Prevalentemente si occupano di cercare nuove medicine nell’ambito delle neuroscienze. Ma il centro ricerche chiuderà alla fine dell’anno.
Il mercato di queste sostanze è vasto. Terribilmente vasto. Scrive L’Arena di Verona di oggi, se non sbaglio solo nell’edizione cartacea, che per Federfarma, nell’ottobre 2009, in Italia sono state vendute con ricetta medica 2.7 milioni di confezioni di psicoanalettici (42,8 milioni di euro), più del doppio delle vendite di analgesici. (Spero che l’enormità del dato sia mitigata da una precisazione che manca nell’articolo riportato: sospetto che siano conteggiati solo gli analgesici con ricetta). Ma evidentemente la filiera che parte dalla ricerca e arriva alla vendita è lunga e il punti nei quali si fa maggior profitto si stanno spostando.
Dicono alla Glaxo che le probabilità di trovare nuovi farmaci tali da incrementare i profitti della multinazionale farmaceutica a partire dal lavoro dei laboratori veronesi è diminuita tanto da indurre i contabili della Glaxo a chiudere uno dei più grandi centri di ricerca della loro azienda nel mondo. Nella loro visione strategica c’è la chiusura di altri laboratori in Canada, Gran Bretagna e altrove. Ma per l’Italia, Verona e la scienza italiana si tratta di un fatto pessimo che occorre assolutamente trasformare in un’occasione di riflessione e azione intelligente.
Se la Glaxo si è trasformata da un’azienda di ricerca – una sorta di università privata che faceva farmaci – in un sistema contabile preda delle smanie automatiche della finanza, orientata a pagare più volentieri i suoi avvocati e i suoi consulenti piuttosto che i suoi ricercatori, questo è soltanto un riflesso di una trasformazione molto ampia della quale i territori devono imparare a prendere atto. Per progettare qualcosa di più intelligente.
La sorgente del valore è nella ricerca. Ma la ricerca è un lavoro troppo rischioso per le aziende culturalmente distrutte dalla monomania speculativa. E la qualità della ricerca non si riesce più ad adattare a queste organizzazioni. Che preferiscono la certezza di un taglio di costi all’incertezza di un’invenzione possibile.
Ma i territori, le città, le comunità, possono assumersi il rischio di non conoscere i risultati della ricerca – che altrimenti non sarebbe ricerca – quando è il momento di investire: perché i territori, le città, le comunità sanno che comunque si portano in casa un ceto intellettuale che fertilizza tutto il sistema locale, una competenza generalizzata, una disponibilità di tecnologie adatte a molti usi, un indotto di qualità… Il problema è non investire senza metodo e senza una strategia. Ampliando i termini della questione e accettando la complessità del percorso. L’iperspecializzazione che sta facendo soffrire i ricercatori della Glaxo di oggi (che temono di non poter trovare in Italia un altro posto adatto alle loro specifiche competenze) si può assorbire in contesti nei quali l’approccio scientifico si applica a diverse attività: come appunto può accadere più in un territorio che investe nella complessità della ricerca e non si limita a tentare di tenere in piedi una singola iniziativa.
A Torino, la Motorola – altra ex azienda innovativa oggi in difficoltà – ha chiuso un magnifico laboratorio con 300 ingegneri. Ma il sistema territoriale torinese è riuscito ad assorbirli. Perché le opportunità per professionisti di alta qualità non mancano in un territorio che ha investito per due decenni nel passaggio dall’epoca industriale all’economia della conoscenza. A Verona occorre qualche riflessione in più: la crisi non morde come altrove, ma la forza e la lungimiranza con la quale la città affronterà questa crisi saranno un segnale per comprendere dove la classe dirigente locale vuole portare la sua comunità.
fonte: blog.debiase