di Flavio Felice*
Dal 2 al 4 ottobre si è svolto a Catania il Convegno Internazionale Sturziano dal titolo “Don Luigi Sturzo uomo dello Spirito”. Il convegno è stato organizzato dal Rinnovamento nello Spirito, dal Centro Internazionale Studi Luigi Sturzo e dall’Istituto Luigi Sturzo. Strutturato in sei aree tematiche: sviluppo, economia, cultura, politica, società e giustizia, il convegno ha offerto una tale vastità di argomenti da non consentire a chi scrive un’esposizione analitica, benché imponga di individuare un possibile filo rosso. A tal proposito, ci poniamo la seguente domanda: quanto è attuale il pensiero di Luigi Sturzo nell’Italia berlusconiana, a cinquant’anni dalla morte del prete siciliano e a novanta dal suo “Appello ai liberi e forti”?
L’esperienza del popolarismo sturziano rappresentò il tentativo di concepire un ordine sociale coerente con la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa. Un ordine politico ed economico che si distinguesse per le risposte che era in grado di dare ai concreti problemi degli uomini. Il tratto caratteristico dell’Appello di Sturzo è caratterizzato dalla convinzione che, al processo dirigista, centralista, monopolista dello Stato, sia preferibile un corretto sistema competitivo, che tenga conto della contingenza e della limitatezza che contraddistinguono la costituzione fisica e morale della persona. È questo il messaggio che il pensiero sturziano trasmette alle forze politiche di oggi. Un messaggio la cui cifra liberale è data, tra le altre, dalle quote di sussidiarietà e di solidarietà presenti nelle politiche pubbliche. Ed allora Sturzo chiederebbe: a che punto è la proposta del buono scuola che ci liberi dal monopolio pubblico dell’istruzione? Ovvero quella del quoziente familiare o di provvedimenti simili che liberino il capitale umano e sociale oggi imprigionato nella famiglia? Oppure quella che prometteva l’abolizione delle province? È probabile che Sturzo direbbe a Berlusconi che le “tre male bestie” da lui denunciate negli anni Cinquanta: “statalismo, partitocrazia, sperpero di denaro pubblico”, insidiano ancora a morte la nostra democrazia.
Ad ogni modo, accanto alla cifra programmatica, possiamo individuarne una morale. La cifra morale di quell’Appello è rivelata dallo stesso Sturzo quando ricorda: “Era mezzanotte quando ci separammo e spontaneamente…passando davanti la Chiesa dei santi Apostoli picchiammo alla porta: c’era l’adorazione notturna…Durante quest’ora di adorazione rievocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, non cercavo nulla…Accettavo la nuova carica di capo del partito popolare con la amarezza nel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio”. Non credo sia necessario il ricorso a pistolotti moralistici per sottolineare la sobrietà e la drammaticità con le quali Sturzo iniziava il difficile esperimento politico che avrebbe traghettato i cattolici italiani dal non expedit alla piena partecipazione democratica, un esperimento che lo avrebbe portato a vivere ben ventidue anni in esilio. Quanta siderale distanza tra la genealogia di quel partito e le tristi vicende che ne seguirono ed un certo cinismo ludico, sincretismo ideologico e scomposto esibizionismo che hanno contraddistinto la vicenda pseudo-politica di questi ultimi mesi in entrambi i principali schieramenti! Forse una parte crescente di cattolici italiani avverte l’esigenza di ripensare le ragioni della diaspora per riconsiderare quelle dell’unità in un partito? Non saprei dare una risposta suffragata da dati, certo è che alcuni relatori ne hanno parlato ed il prof. Dario Antiseri ha fortemente caldeggiato questa ipotesi.
Un secondo elemento che può aiutarci a tracciare un possibile filo rosso del convegno riguarda le nozioni di sviluppo e di economia tipicamente sturziani. A tal proposito, Sturzo non sarebbe del tutto soddisfatto dell’equiparazione tra globalizzazione e “mercatismo” operata dal ministro Tremonti.
Per Sturzo un’economia libera è compatibile solo con certi interventi, quelli che mirano a rafforzare il mercato: era questa la visione degli ordoliberali tedeschi fautori della cosiddetta economia sociale di mercato. La cifra della congruità di un intervento è data dalla sua attitudine non tanto di alzare muri che non reggeranno l’onda d’urto del terremoto che si starebbe per abbattere su una realtà economico-produttiva o di lasciare che il sisma abbatta tutto ciò che si oppone alla sua forza distruttrice, quanto di guidare e di mitigare la forza del sisma, limitandone il più possibile i danni. A tal proposito, in un saggio del 1928 Sturzo afferma: “Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale…Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume…Il grande fiume è una grande ricchezza e può essere un grave danno: dipende dagli uomini, in gran parte, evitare questo danno. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista. Così è del grande fiume dell’economia internazionale”.
Questi sono solo alcuni dei problemi che dai primi anni del Novecento alla fine degli anni Cinquanta lo straordinario prete di Caltagirone affrontò a partire da una limpida teoria dell’ordine politico ed economico, non volendosi arrendere al populismo autarchico, al totalitarismo aggressivo e al protezionismo liberticida. Per questa ragione Sturzo guarderebbe con sospetto le facili demonizzazioni della globalizzazione e le avventurose fughe in avanti di costruttivisti e pianificatori di ogni tipo ed ideale. Ingeneri sociali che sognano in una nuova Bretton Woods di disegnare le linee di una ipotetica “terza generazione del capitalismo”. Sturzo è consapevole che nessun ordinamento tecnocratico possa evitare e negligere la realtà che esiste sempre qualcosa che va “oltre l’offerta e la domanda”. Questo qualcosa per Sturzo era la trascendente dignità della persona; un ordine etico, quello della dignità umana, che chiede ancor oggi, e a maggior ragione oggi, di essere affrontato e compreso con la massima urgenza e profondità se non si voglia correre il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi ovvero all’anarchismo degli interessi individuali, rispettivamente, figli di una logica neocorporativa ovvero di un ottimistico disinteresse per le ragioni dell’ordine sociale e della civitas humana, e finire, comunque, per sacrificare le libere scelte individuali sull’altare della “presunzione fatale” del Grande Pianificatore.
(Una versione ridotta è stata pubblicata dal quotidiano “Il Foglio” del 6 ottobre 2009)
*Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton ed Adjunct Fellow American Enterprise Institute