“Questa sera, dopo cinquantaquattro combattutissime sfide, la nostra stagione delle primarie si è finalmente conclusa. Sono passati sedici mesi da quando ci siamo riuniti per la prima volta, sui gradini del vecchio palazzo del Parlamento statale dell’Illinois, a Springfield. Abbiamo percorso migliaia di miglia. Abbiamo ascoltato milioni di voci. E grazie a quello che voi avete detto, grazie al fatto che voi avete deciso che a Washington deve arrivare il cambiamento, grazie al fatto che voi avete creduto che quest’anno dovrà essere diverso da tutti gli altri anni, grazie al fatto che voi avete scelto di dare ascolto non ai vostri dubbi o alle vostre paure ma alle vostre speranze e aspirazioni più grandi, questa notte noi scriviamo la parola fine di uno storico viaggio con l’inizio di un altro viaggio, un viaggio che porterà un’alba nuova e migliore per l’America. Questa notte, io posso venire da voi e dire che sarò il candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti.
Voglio ringraziare tutti gli americani che sono stati al nostro fianco nel corso di questa campagna, nei giorni belli e nei giorni brutti; dalle nevi dello Iowa, al sole del South Dakota. E questa sera voglio ringraziare anche gli uomini e le donne che hanno intrapreso questo viaggio con me, candidandosi anche loro per la presidenza.
In questo momento decisivo per la nostra nazione, noi dobbiamo essere orgogliosi che il nostro partito sia stato capace di schierare un gruppo di persone fra le più brillanti e competenti che abbiano mai concorso a questo incarico. Non mi sono limitato a competere con loro come avversari, ho imparato da loro, come amici, come servitori dello Stato e come patrioti che amano l’America e sono disposti a lavorare senza risparmio per rendere migliore questo Paese. Loro sono dei leader di questo partito e sono leader su cui l’America farà conto negli anni a venire.
Tutto questo vale in particolare per la candidata che questo viaggio lo ha prolungato più di chiunque altro. La senatrice Hillary Clinton ha scritto la storia, in questa campagna elettorale, non soltanto perché è una donna che ha saputo fare quello che nessuna donna aveva fatto prima, ma perché è una leader capace di dare l’esempio a milioni di americani con la sua forza, il suo coraggio e il suo impegno in favore di quelle cause che ci hanno condotto qui questa sera.
Certamente ci sono state delle divergenze tra di noi negli ultimi sedici mesi. Ma avendo condiviso il palcoscenico con lei in molte occasioni, posso dirvi che quello che spinge Hillary Clinton ad alzarsi ogni mattina – anche quando ci sono poche speranze – è esattamente quello che spinse lei e Bill Clinton a partecipare alla loro prima campagna elettorale, tantissimi anni fa; è quello che la spinse a lavorare per il Children’s Defense Fund e a condurre la sua battaglia per la riforma sanitaria quando era first lady; è quello che l’ha portata al Senato degli Stati Uniti e ha dato forza alla sua campagna presidenziale, capace di rompere gli schemi: un desiderio incrollabile di migliorare la vita dei comuni cittadini di questo Paese, per quanto difficile possa essere quest’impresa. Ed è indubbio che quando finalmente avremo vinto la battaglia per un’assistenza sanitaria per tutti in questo Paese, il suo ruolo in quella vittoria sarà stato fondamentale. Quando trasformeremo la nostra politica energetica e sottrarremo i nostri figli alla morsa della povertà, ci riusciremo perché lei ha lavorato perché questo accadesse. Il nostro partito e il nostro Paese sono migliori grazie a lei, e io sono un candidato migliore per aver avuto l’onore di competere con Hillary Rodham Clinton.
C’è chi dice che queste primarie ci hanno lasciati un po’ più deboli e un po’ più divisi. Ebbene, io dico che grazie a queste primarie ci sono milioni di americani che per la prima volta in assoluto hanno espresso un voto. Ci sono elettori indipendenti ed elettori repubblicani che comprendono che in queste elezioni non si decide solamente quale partito governerà a Washington, ma si decide sulla necessità di cambiare a Washington. Ci sono giovani, afroamericani, ispanici e donne di tutte le età che sono andati a votare in massa, con numeri che hanno battuto tutti i record e hanno dato l’esempio a una nazione intera.
Tutti voi avete scelto di sostenere un candidato in cui credete profondamente. Ma in fin dei conti, non siamo noi la ragione per la quale siete usciti di casa e avete aspettato, con file che si stendevano per isolati interi, per votare e far sentire la vostra voce. Non lo avete fatto per me, o per la senatrice Clinton o per chiunque altro. Lo avete fatto perché sapete nel profondo del vostro cuore che in questo momento – un momento che sarà decisivo per una generazione intera – non possiamo permetterci di continuare a fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo il dovere di dare ai nostri figli un futuro migliore. Abbiamo il dovere di dare al nostro Paese un futuro migliore. E per tutti coloro che questa notte sognano questo futuro, io dico: cominciamo a lavorare insieme. Uniamoci in uno sforzo comune per tracciare una nuova rotta per l’America.
Tra pochissimi mesi, il Partito repubblicano arriverà qui a St. Paul, per la sua convention, con un programma diversissimo. Verranno qui per nominare come candidato alla presidenza John McCain, un uomo che ha servito questo Paese eroicamente. Io rendo onore a quello che ha fatto sotto le armi, e rispetto i tanti risultati che ha ottenuto, anche se lui sceglie di negare i miei. Non è sul piano personale che sono in disaccordo con lui: sono in disaccordo con le misure che ha proposto in questa campagna.
Perché se da un lato John McCain può legittimamente rivendicare momenti di indipendenza dal suo partito in passato, non è questa indipendenza il tratto distintivo della sua campagna presidenziale.
Non è cambiamento se John McCain ha deciso di schierarsi dalla parte di George Bush nel novantanove per cento dei casi, come ha fatto in Senato lo scorso anno. Non è cambiamento quando ci offre altri quattro anni delle politiche economiche di Bush, che non sono riuscite a creare posti di lavoro ben pagati, o ad assicurare i nostri lavoratori, o ad aiutare gli americani a sostenere i costi sempre più alti dell’università; politiche che hanno fatto calare il reddito reale delle famiglie medie americane, che hanno allargato il divario tra il grande capitale e le piccole e medie imprese e hanno lasciato ai nostri figli un debito colossale.
E non è cambiamento quando promette di proseguire, in Iraq, sulla strada di una politica che chiede tutto ai valorosi soldati, uomini e donne, che servono nelle nostre forze armate, e non chiede nulla ai politici iracheni, una politica in cui tutto quello che cerchiamo di ottenere sono ragioni per rimanere in Iraq, mentre spendiamo miliardi di dollari al mese in una guerra che non serve nel modo più assoluto a rendere il popolo americano più sicuro. Vi dirò una cosa: ci sono molte parole per definire il tentativo di John McCain di spacciare la sua acquiescenza alle politiche di Bush come una scelta di novità e imparzialità. «Cambiamento», però, non è tra queste.
Cambiamento è una politica estera che non comincia e finisce con una guerra che non avrebbe mai dovuto essere autorizzata e non avrebbe mai dovuto essere scatenata. Non verrò qui a far finta che in Iraq siano rimaste molte opzioni valide a disposizione, ma un’opzione improponibile è quella di lasciare i nostri soldati in quel Paese per i prossimi cent’anni, specialmente in un momento in cui le nostre forze armate sono al limite delle loro possibilità, la nostra nazione è isolata e quasi tutte le altre minacce che gravano sull’America vengono ignorate.
Dovremo essere tanto accorti nell’uscire dall’Iraq quanto poco accorti siamo stati nell’entrarvi, ma dobbiamo cominciare ad andarcene. È tempo che gli iracheni si assumano la responsabilità del loro futuro. È tempo di ricostruire le nostre forze armate e dare ai nostri veterani l’assistenza di cui hanno bisogno e le indennità che meritano, quando fanno ritorno a casa. È tempo di tornare a concentrare i nostri sforzi sulla leadership di al-Qaida e sull’Afghanistan, e di unire il mondo per combattere le minacce comuni del XXI secolo: il terrorismo e le armi nucleari, i cambiamenti climatici e la povertà, i genocidi e le malattie. Questo è il cambiamento.
Cambiamento è capire che per affrontare le minacce dei nostri giorni non basta la nostra potenza di fuoco, ma serve anche la forza della nostra diplomazia, una diplomazia decisa e diretta, in cui il presidente degli Stati Uniti non abbia paura di far sapere a qualsiasi dittatorucolo qual è la posizione dell’America e per che cosa si batte l’America. Dobbiamo tornare ad avere il coraggio e la convinzione per guidare il mondo libero. Questa è l’eredità di Roosevelt, e di Truman, e di Kennedy. Questo è quello che vuole il popolo americano. Questo è il cambiamento.
Cambiamento è costruire un’economia che non ricompensi soltanto i ricchi, ma il lavoro e i lavoratori che l’hanno creata. È comprendere che le difficoltà che devono affrontare le famiglie dei lavoratori non possono essere risolte spendendo miliardi di dollari in altri sgravi fiscali per le grandi aziende e per i ricchi supermanager, ma offrendo uno sgravio fiscale alla classe media, e investendo nelle nostre infrastrutture fatiscenti, e cambiando il modo di usare l’energia, e migliorando le nostre scuole, e rinnovando il nostro impegno in favore della scienza e dell’innovazione. È comprendere che rigore di bilancio e prosperità diffusa possono andare a braccetto, come accadde quando era presidente Bill Clinton.
John McCain ha speso un mucchio di tempo a parlare di viaggi in Iraq, in queste ultime settimane, ma forse se avesse speso un po’ di tempo a viaggiare nelle città grandi e piccole che sono state colpite più duramente di tutte da questa economia – nel Michigan, nell’Ohio e proprio qui in Minnesota – comprenderebbe che tipo di cambiamento sta cercando la gente.
Forse se andasse nell’Iowa e incontrasse la studentessa che dopo un giorno intero a seguire le lezioni lavora la notte e nonostante questo non riesce comunque a pagare le cure mediche per una sorella ammalata, capirebbe che lei non può permettersi altri quattro anni di un sistema sanitario che va a vantaggio solo di chi è ricco e sano. Lei ha bisogno che noi approviamo una riforma sanitaria che garantisca un’assicurazione a tutti gli americani che la desiderano, e che faccia scendere il costo dei premi assicurativi per tutte le famiglie che ne abbiano bisogno. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
Forse se andasse in Pennsylvania e incontrasse l’uomo che ha perso il suo lavoro ma non ha neanche i soldi per pagarsi la benzina per girare alla ricerca di un altro lavoro, capirebbe che non possiamo permetterci altri quattro anni di dipendenza dal petrolio dei dittatori. Quell’uomo ha bisogno che noi approviamo una politica energetica che insieme alle case automobilistiche migliori i parametri di efficienza energetica dei carburanti, e che faccia in modo che le grandi aziende paghino per l’inquinamento che producono, e che faccia in modo che le compagnie petrolifere investano i loro profitti da record in un futuro di energia pulita; una politica energetica che creerà milioni di nuovi posti di lavoro ben pagati e che non potrà essere delegata ad altri Paesi. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
E forse se avesse passato un po’ di tempo nelle scuole della Carolina del Sud o di St. Paul, o dove ha parlato questa sera, a New Orleans, capirebbe che non possiamo permetterci di lesinare soldi per il programma per l’infanzia No Child Left Behind; che è un dovere verso i nostri figli investire nell’istruzione per la prima infanzia, reclutare un esercito di nuovi insegnanti e offrire loro una paga migliore e maggiore sostegno, decidere finalmente che in questa economia globale l’occasione di avere un’istruzione universitaria non dovrebbe essere un privilegio riservato a pochi ricchi, ma un diritto inalienabile di ogni americano. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno in America. È per questo che io corro per la presidenza.
L’altra parte verrà qui a settembre e offrirà una serie di politiche e di posizioni molto diverse, e questo è un dibattito che io aspetto con impazienza. È un dibattito che il popolo americano si merita. Ma quello che non si merita è un’altra elezione governata dalla paura, dalla diffamazione e dalla divisione. Quello che non sentirete da questa campagna o da questo partito è quel genere di politica che usa la religione come un elemento di divisione e il patriottismo come una clava, quella politica che vede i nostri avversari non come concorrenti da sfidare ma come nemici da demonizzare. Perché noi possiamo definirci Democratici e Repubblicani, ma siamo prima di tutto americani. Siamo sempre prima di tutto americani.
Nonostante quello che ha detto stasera l’ottimo senatore dell’Arizona, io ho visto molte volte, nei miei vent’anni di vita pubblica, persone di idee e opinioni differenti trovare un terreno d’incontro, e io stesso in molte occasioni ho creato questo terreno d’incontro. Ho camminato sottobraccio con leader di quartiere nel South Side di Chicago, e ho visto stemperarsi le tensioni tra neri, bianchi, e ispanici mentre lottavano insieme per avere un buon lavoro e una buona istruzione. Sono stato seduto a uno stesso tavolo con rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine e sostenitori dei diritti umani per riformare un sistema della giustizia penale che ha mandato tredici innocenti nel braccio della morte. E ho lavorato insieme ad amici dell’altro partito per garantire un’assicurazione sanitaria a un maggior numero di bambini e uno sgravio fiscale a un maggior numero di famiglie di lavoratori; per frenare la proliferazione delle armi nucleari e per fare in modo che il popolo americano sappia dove vengono spesi i soldi delle sue tasse; e per ridurre l’influenza dei lobbisti che troppo spesso stabiliscono le priorità a Washington.
Nel nostro Paese, io ho scoperto che questa collaborazione non avviene perché siamo d’accordo su ogni cosa, ma perché dietro a tutte le etichette e false divisioni e categorie che ci definiscono, al di là di tutti i battibecchi e le schermaglie politiche a Washington, gli americani sono un popolo onesto, generoso, compassionevole, unito da sfide e speranze comuni. E in certi momenti, è a questa bontà di fondo che si fa appello per tornare a far grande questo Paese.
Così è stato per quel gruppo di patrioti riuniti in una sala a Filadelfia, che dichiararono la formazione di una più perfetta unione; e per tutti coloro che sui campi di battaglia di Gettysburg e di Antietam [luoghi di importanti battaglie della Guerra di secessione, ndt] si impegnarono fino allo spasimo per salvare quella stessa unione.
Così è stato per la più grande delle generazioni, che sconfisse la paura stessa e liberò un continente dalla tirannia facendo di questo Paese una terra di opportunità e prosperità senza limiti.
Così è stato per i lavoratori che hanno tenuto duro nei picchetti; per le donne che hanno infranto il soffitto di cristallo; per i bambini che sfidarono il ponte di Selma [allusione a un famoso episodio delle lotte per i diritti civili degli anni ’60, ndt] per la causa della libertà.
Così è stato per ogni generazione che ha affrontato le sfide più grandi, contro ogni speranza, per lasciare ai loro figli un mondo che è migliore, più buono e più giusto.
E così dev’essere per noi.
America, questo è il nostro momento. Questa è il nostro tempo. Il tempo di voltare pagina rispetto alle politica del passato. Il tempo di apportare una nuova energia e nuove idee alle sfide che abbiamo di fronte. Il tempo di offrire una direzione nuova al Paese che amiamo.
Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Io affronto questa sfida con profonda umiltà e consapevolezza dei miei limiti. Ma l’affronto con una fede illimitata nella capacità del popolo americano. Perché se siamo pronti a lavorare per questo obbiettivo, e a lottare per questo obbiettivo, e a credere in questo obbiettivo, allora sono assolutamente certo che le generazioni future potranno guardarsi indietro e dire ai nostri figli che questo fu il momento in cui cominciammo a offrire assistenza sanitaria per gli ammalati e un buon lavoro ai disoccupati; questo fu il momento in cui l’innalzamento dei mari cominciò a rallentare e il nostro pianeta cominciò a guarire; questo fu il momento in cui mettemmo fine a una guerra e garantimmo la sicurezza della nostra nazione e ripristinammo l’immagine dell’America come ultima e migliore speranza per il pianeta. Questo fu il momento – questo fu il tempo – in cui ci unimmo per ricostruire questa grande nazione in modo tale da rispecchiare la nostra vera identità e i nostri più alti ideali. Grazie, che Dio vi benedica e che Dio benedica l’America.”
(traduzione di Fabio Galimberti)
tratto da: il sole 24 ore